di Francesco Nino Zignego
A vino onesto e generoso rivolgo incondizionato elogio cui il
piacere sempre vivo della degustazione fa da corollario. Se poi quel vino si
chiama «Rinforzato» di Campiglia, le cui risonanze producono sempre in me
lieviti di struggente nostalgia, allora alla malìa del ricordo si associa un
senso di infinita gratitudine. Alla tradizione, che lo vuole ricostituente
egregio, aggiungo la mia personale esperienza attraverso la quale posso
affermare che questo vino possiede veramente proprietà terapeutiche miracolose.
Ricordo infatti come un sorso di questo nettare mi concesse, nel lontano 1918,
la gioia immensa di salvare la mia carissima mamma dal flagello della
implacabile febbre «spagnola». Tante volte ho potuto allentare l'ansia
opprimente o colmare il vuoto di momenti banali dell'esistenza riandando col
pensiero a quegli episodi vissuti in perfetta armonia con un mio vecchio caro
amico del bel tempo passato. Ricordo che costui, scorgendomi fra il verde,
reduce da una delle mie frequenti battute di caccia, transitare per gli erti e
instabili sentieri della costa di Campiglia, mi chiamava a gran voce e
ripetutamente quasi temendo che il vasto silenzio in tal modo incrinato da quel
richiamo profanatore potesse in qualche modo reagire all'oltraggio subìto,
ostacolandomi la ricezione dell'invito. Rimaneva così, immobile e trepidante, ad
attendere la parola affettuosa e sincera dell'amico caro che finalmente poteva
riabbracciare. Ed allora al cospetto del mare, di cui quasi si percepiva il
respiro profondo carico di promesse e lusinghe ed avviluppati dal verde dorato
dei prorompenti, faticati vigneti, si iniziava la profana devozione a Bacco. Ed
era il vino di Campiglia, amico del mondo, che presiedeva al nostro rito e
punteggiava la nostra conversazione fatta di gesti più che di parole. Di gesti
istintivi e reverenti verso i vasi vinari ai quali ripetutamente attingevamo e
che, posti in un angolo sapientemente scelto della cantina, parevano, lusingati,
propiziare le nostre libagioni. La cantina ospitale, che mi accoglieva con
simpatia, fungeva anche da dimora del vignaiolo durante il periodo del governo
delle viti e della successiva vinificazione. Angusta rustica e severa e
edificata in pietra arenaria murata a secco. La rara maestria dell'artefice nel
connettere le pietre ha consentito a queste costruzioni di resistere indenni
all'usura dei secoli. Macchie grigie nel verde opulento dei vigneti, appena
scalfito dalla geometria dei muretti di sostegno delle terrazze, ti accendono la
fantasia trasportandoti in un mondo lontano, di cui non rimangono ormai che echi
confusi, quasi indistinti. Sogni così gli antichi Liguri mentre, con fatiche
disumane, sono intenti a raccogliere pietre da occasionali cave di prestito per
trasportarle, a spalla, attraverso impossibili sentieri nei luoghi dove poi
costruiranno, a secco, i muretti di contenimento. E saranno proprio questi
muretti che ospiteranno la terra che farà prosperare i vigneti. Ma anche in
questa fase dell'opera le tribolazioni non danno tregua. La zona infatti, come
tutta la riviera ligure, è montuosa e in forte pendio e quindi il dilavamento
prodotto dall'acqua meteorica non ha consentito la formazione dello strato
umico. Ne consegue la necessità di ricercare la terra negli anfratti, nel cavo
dei castani secolari e dovunque un qualche ostacolo ha consentito alla terra
stessa di sottrarsi al dilavamento. Anche il cappellaccio di arenaria reso
friabile dall'azione prolungata degli agenti atmosferici, è utilizzato a questo
scopo. Sarà anzi l'elemento che maggiormente contribuirà alla formazione delle
terrazze. Sì sopperirà poi alla scarsezza di sostanze organiche mediante,
l'apporto di aghi di pino, sterpaglie, pruni e con tutto ciò che la vegetazione
locale può offrire. Attraverso quindi il naturale processo di decomposizione
questa pratica renderà il terreno fresco e con l'aggiunta di lupini anche
sufficientemente fertile pronto per la produzione. E sarà la mitica uva di «Campìa».
La benevolenza del mare su cui si affaccia e dal quale riceve calore e
accecante riverbero di luce propiziatoria, unita alla protezione dai venti
freddi del nord, che la cresta montana le offre, fanno poi di questa terra il
luogo dove certamente Bacco avrebbe eletto la sua dimora. Il grosso gatto
semiselvatico, intanto, si muoveva sornione intorno a noi nella speranza che
qualche avanzo di pane raffermo o di acciughe salate allo spasimo toccasse anche
a lui. E quando il mio amico «Menistro», tale era il suo soprannome, si
avvicinava alla cassapanca, custode severa di primitive cibarie, il gatto pareva
risvegliarsi dall'apparente letargo e con un balzo felino tentava la conquista
di un pasto diverso dall'abituale, costituito da topi e lucertole. Ed era sempre
la rudimentale cassapanca di legno, ormai sconnessa e certamente abbandonata
anche dai tarli che del legno non avevano lasciato che i buchi, che diventava
giaciglio accogliente quando cedevo al gran caldo estivo e soprattutto al
torpore conseguente i ripetuti omaggi ai vari caratelli. E così, cullato
dall'afrore pungente di mosto che si mescolava armonioso al profumo acre e
balsamico dei pini, dormivo di sonno profondo che fratel mare conciliava col suo
ritmico infrangersi sulla spiaggia non lontana. Nel mio inconscio si
risvegliavano allora meravigliose suggestioni di tempo, di luogo, di persone. E
sognavo di fantasmi del passato: Saraceni truci e grifagni che, fuggiaschi dopo
Lepanto, cercavano in queste coste che già avevano patito le loro feroci
incursioni di predatori fanatici e crudeli, un asilo che in qualche modo
placasse loro fame e terrore. Ma forse il sogno non si discosta troppo dalla
realtà; non mancano infatti elementi che potrebbero suffragare questo assunto.
Le caratteristiche somatiche degli arabi: asciutti con viso aguzzo, naso
aquilino, carattere fiero e riservato nonché istintivamente ribelle, trovano
riscontro in quelle dei Liguri rivieraschi. Oggi questa presunta discendenza.
che un tempo ormai lontano poteva apparire verosimile, non trova più elementi di
sostegno. Infatti, con la fine dell'era agricola e l'avvento della civiltà
industriale, sono intervenute profonde e radicali mutazioni nella vita dell'uomo
che assieme al tenore ne hanno modificato l'aspetto e, di massima, anche il
comportamento. Fino a mezzo secolo fa - vi è ancora chi lo ricorda - i biassèi
non pagavano tasse e gli esattori che avessero osato mostrarsi in paese ad
esigerle si sarebbero ritrovati in qualche burrone del «caná di foèsti». Penso
che episodi come questo possano aggiungere credibilità all'ipotesi che qualche
goccia di sangue saraceno scorra ancora nelle nostre vene. Che ciò sia più o
meno attendibile non modifica comunque il nostro amore per questa terra tutta e
per Campiglia in particolare.«Campìa» ha le sue opere più espressive, chiesa e
annesso cimitero, esposte a tutti i venti quasi a sfidarne ì rigori. Sorgono sul
piazzale dal quale si ha, verso nord, la visione della città e a sud si affaccia
sul mare, sempre mutevole e imprevedibile, inesausta fonte di vita e di
speranza. Dal suo respiro possente e nel contempo struggente e delicato come una
dolce carezza materna attingo sempre motivo di fiducia e di sicura fede
nell'avvenire. Terra amata che sei stata culla di tanti miei sogni giovanili
quando, con l'animo avido di quelle sensazioni che soltanto la natura può
concedere, vagavo per il tuo bosco ebbro dei suoi profumi e dei suoi misteri.
Bastava così un pigolìo sommesso o un frullo d'ali o il lieve stormir di una
fronda per procurarmi ineffabili fremiti di gioia. Sensazioni meravigliose e
ormai tanto lontane nel tempo e che poi l'impatto con le asprezze della vita ha
deluso e inaridito. I ricordi di persone qui conosciute ed amate sono impressi
nella mia mente vivi e palpitanti che il tempo, seppure implacabile, non
offusca; ma, invece, quasi ne sublima la memoria. Terra dagli echi bacchici, dai
richiami ancestrali, dagli ardenti amori silvani e dai ricordi dolcissimi dei
volti di tante persone amiche. E' la terra che mi ha accolto compiacente quando,
permeato di giovanile ardore venatorio, mi aggiravo per i suoi aspri sentieri e
sostavo in fremente aspettativa nei suoi affili, nelle sue creste ventose,
scrutando l'orizzonte lontano sul mare in attesa delle prede agognate. Nella mia
eccitata fantasia allora la scena quasi si trasfigurava in un elemento di un
mondo diverso e incantato. Di un mondo ideale in cui prevaleva l'imperio
dell'entusiasmo e del sentimento e di cui diventavo schiavo volontario e felice.
Il crinale delle Cinqueterre nel suo profilo frastagliato si deprime, non
lontano da Campiglia, nella «Boca di Cavalin». Questa cresta rocciosa, nel
tratto considerato, interessante le pertinenze, appunto, di Campiglia, precipita
a nord verso valle con ripido pendio per poi distendersi in un breve tratto
pianeggiante in prossimità del mare. Verso sud la configurazione verticale è
analoga, ma non presenta soluzione di continuità fino al litorale e il suo
fianco è instabile e scosceso in vaste zone a causa della continua erosione
prodotta alla sua base dalla protervia delle onde. Accade così che molte
terrazze, costruite col sacrificio di tante generazioni e destinate alla
coltivazione della pregiatissima uva di Campiglia, siano ormai ridotte a squarci
di mortificante desolazione.La vegetazione nei versanti del colle risente,
ovviamente, dell'esposizione: così a nord, l'opulenta pineta è consociata a
vigorosi arbusti di erica ed il sottobosco incontaminato di aghi di pino
dall'acre sentore fa acceso contrasto col verde, vivo e vibrante, delle chiome
sovrastanti. A sud la vegetazione cambia essenza: sono in prevalenza lecci aspri
e forti, dall'intrico impenetrabile, sostentati da un terreno avaro e selvaggio
in gran parte scosceso e roccioso. In tanta asprezza ti scuotono e rallegrano le
gocce d'acqua con cui la recente pioggia ha ornato le foglie e che i raggi del
sole, a tratti, rendono corrusche. La strada per Campiglia, specie nel secondo
tratto conclusivo, attraversa luoghi pittoreschi di rara bellezza. Giunti al
bivio della Castellana, quasi a quota Campiglia, è d'uopo scendere dalla
macchina e sostare. La «Boca di Cavalin» è lì. Così, dopo esserti abbeverato
di una sinfonia di fresche volte di verzura, aver lambito impenetrabili banchi
di rovi in cui il merlo, certo infastidito dall'intrusione, si rifugia dopo
averti elargito un chioccolío alto e rapido, forse di scherno, come in un
boccascena naturale ecco la «Boca». Ed è il mare immenso, solenne anfiteatro,
che si presenta al tuo sguardo estasiato, rapisce la fantasia e genera tumulto
di pensieri e sensazioni. Resti così attonito e pervaso dal senso mistico
dell'infinito e dalla maestà del Creatore. Smarrito ti volgi attorno con lo
sguardo esaltato da tanta gioia e cerchi un'entità in cui espanderti, da rendere
compartecipe al tuo fervore, mentre un diffuso sentimento di pace ti avvolge molcendoti ogni intimo affanno. Il sapore, il senso di salmastro che proviene dal
mare e che informa ogni cosa a te intorno, si confonde con l'annuncio odoroso e
balsamico dei pini in una sintesi dei due elementi. All'improvviso una folata di
fresco maestrale disperde, irriverente, ogni suggestione ed io, con un ultimo
nostalgico sguardo alla bellicosa, arrogante torretta arroccata sul contrafforte
che mi vieta la visione magnifica delle cantine di Campiglia, lentamente
allontanandomi, mi ricompongo dal mio rapimento. Ed ecco, potenza
dell'evocazione, che Campiglia si manifesta col suo blasone odorifico: dapprima
lieve poi, favorito dal vento amico, sempre più intenso mi perviene l'afrore
paradisiaco del mosto. Sono non lontano dalla zona sacra del « rinforzato » già
si annunzia misterioso e insinuante nell'aria. Ogni evento, ogni ricordo, la
storia stessa di questo paese, pare si librino ancora sull'onda del ricordo
unicamente in virtù di questo vino che ci perviene da civiltà primitive che lo
veneravano quale custode generoso di letizia e armonia.
Il vignaiolo sa che il
prestigio del suo vino si riverbera su dì lui che ne è l'artefice diretto
premuroso e assiduo; ma anche sui suoi primi, sulla sua gente tutta e sulla sua
terra con la quale, in pace, un giorno si confonderà. Così, come il dono
lusinghiero del prestigio genera gratitudine, a sua volta questa si prodiga per
mantenere viva la sorgente di esso. Da questa simbiosi, da questo rapporto di
reciproco interesse, scaturisce il « rinforzato » di Campiglia. Qui il silenzio
è denso, vastissimo e ogni rumore pare abbia rispetto di esso. Il verde dei
vigneti, i tetti delle cantine che timidamente occhieggiano in tanto ardore
genetico, i dirupi, gli orridi precipizi stessi che intervallano come ferite la
grande distesa di viti, forse ne sono ì custodi devoti e severi. Anche i
richiami, che a intervalli si odono, sono smorzati nelle loro sonorità e si
diffondono nell'aria gradevoli, quasi armoniosi. Ricordo il servizio da me
prestato per breve periodo, durante l'ultimo conflitto, alla batteria antinave
che appunto aveva sede in questa zona. Le notti invernali trascorse in quegli
umidi e gelidi edifici quando ancora ero troppo memore degli agi domestici, mi
spingevano sovente sulle pendici del versante sul mare, verso il sole, al quale
mi esponevo lungamente sciorinando sul verde la divisa con l'istintiva speranza
di poter così immagazzinare parte di quel benefico calore che certamente avrei
tanto bramato le notti successive. Appartiene a quel periodo l'episodio
seguente, svoltosi in un ambiente eterogeneo e agitato in clima di sospettosa
tensione. E' notte avanzata: il freddo e la nostalgia ci avviluppano inesorabili.
Improvvisamente il richiamo di una voce alterata scuote il silenzio e ci
distoglie dalle meditazioni. Qualcuno ha notato baluginare una luce in direzione
di Campiglia e la psicosi dello spionaggio, che l'intermittenza di quel chiarore
improvvisamente ridesta, induce una nostra pattuglia ad organizzarsi
sollecitamente per affrontare l'insidia. Raggiunto così il paese e localizzata la
provenienza della luce, che intanto continua a manifestarsi debolmente, i
militari abbandonano ogni riserbo e irrompono nel locale sospetto con le armi
spianate. Ma la scena che si offre al loro sguardo inquisitore nulla ha di
drammatico: un mozzicone di candela arde timidamente su di un tavolo coperto di
libri, mentre un giovane studia latino passeggiando per la stanza per vincere il
sonno. A causare tanta clamorosa emozione è stato un vetro della finestra,
colpevole di essere soltanto parzialmente oscurato, che ha innescato la violenta
reazione di una fantasia sovreccitata dagli eventi bellici. Durante questo
periodo solevo recarmi spesso in paese a far visita ai genitori di mio cognato,
Fiore e Angiolina. In quella casetta immersa nel verde, accolto dall'affetto di
persone care, indugiavo sereno accanto al fuoco che allegramente scoppiettava
nel rustico focolare e pareva sussurrarmi sommessamente di sperare... Il mio
pensiero indugia sovente nel ricordo di quelle due figure di un mondo scomparso:
Angiolina dal portamento improntato di fierezza e severità che induceva la
fantasia a vagare nella evocazione di misteriose e lontane discendenze e Fiore
dalla brusca cordialità istintiva che demandava ai fatti l'interpretazione dei
sentimenti. Era poi il contatto umano a rivelare in ogni circostanza l'essenza
del loro affetto generoso e spontaneo di cui sento un ricordo grato e reverente.
Il cibo scarseggiava ma il vino prodotto dai miei amici non mancava mai. Di
norma era Fiore che lo prelevava dalla cantina contigua. Si alzava silenzioso,
si copriva le spalle per proteggersi dal freddo della notte, e si dissolveva nel
buio dal quale riemergeva poco dopo con in braccio un tronfio allettante
bottiglione di vino nero. Vino nero, rinforzato, dal vago sapore fragolino che,
se degustato ad occhi socchiusi e con la mente distratta dal dramma incombente,
pareva rendere propizio l'accesso al Nirvana, al paradiso delle Urì. Oggi di quei
vitigni di antichissima origine che producevano quel vino mirabile, non è
rimasto che il ricordo. Prima insidiati dalla filossera erano stati
successivamente sconvolti dalle frane delle fascie che li sostenevano e così di
tanta antica opulenza non rimangono che aride pietraie dove lo sguardo sosta
sconsolato. Una sola volta avevo avuto occasione di seguire mio cognato in
visita alle sue proprietà di Tramonti, consistenti in appezzamenti di terra
sparpagliati, alcuni dei quali di dimensioni esigue, per effettuarvi
accertamenti. Per raggiungerli impiegavamo ore a percorrere angusti sentieri e
qualche volta anche tratturi a mezzo costa, appena segnati, che i frequenti
smottamenti rendevano difficili e insidiosi Mi chiedevo allora come sarebbe
stato possibile individuare quei lembi di terra, intersecati dalla geometrica
uniformità delle fascie, quando la vegetazione fosse stata in pieno rigoglio.
Questa perplessità era poi accentuata dal frazionamento della proprietà, che qui
assume aspetti di frantumazione, in cui il caso limite è costituito dallo spazio
vitale di una sola vite che forma particella catastale. Quel primo occasionale
contatto con la zona di Tramonti, invero assai sommario ed effettuato d'inverno
per motivi tecnici, mi aveva lasciato con qualche titubanza. Le difficoltà
d'accesso attraverso una ripida interminabile gradinata, la scomodità derivante
dall'eccessivo frazionamento della proprietà nonché quel malinconico aspetto che
assumono le piante, se spoglie di vegetazione, mi avevano provocato una
deprimente impressione. Mi chiedevo allora, invano, di che natura potesse essere
lo stimolo che spingeva la gente della costa a sottoporsi a tanto disagio con la
sola prospettiva di un assai dubbio tornaconto. Non avevo mai avuto occasione di
osservare questi sacerdoti di Bacco quando, all'alba, si avviavano al lavoro nei
loro vigneti perché, nonostante che le stelle tremolassero ancora alte nel
cielo, il mio furore venatorio già mi aveva condotto altrove. Condotto cioè a
spasimare all'aspetto dei colombacci, incollato alla «posta do Bocia» sul
crinale dei monti di Campiglia.
Mi accadeva invece spesso di assistere al loro
ritorno. Quando al crepuscolo rientravano dal loro lungo operare, che si
concludeva con l'estenuante gradinata che dalle fascie quasi sul mare porta al
paese, mi colpiva particolarmente il modo, ripetuto come un rito, con cui
guadagnavano il ripiano accogliente della piazza: un colpo secco della suola
destra, secondato da tutta la gamba e battuto sull'ultimo scalino, cui
corrispondeva, in perfetta concordanza, uno scatto vivace che faceva irrigidire
il busto come in risposta al comando di: attenti!Era questo un modo virile ed
espressivo di conquistare l'ambito traguardo di un'altra giornata serena. Lieti
e soddisfatti, pareva che la stanchezza fosse loro sconosciuta: un fardello che
si dissipava non appena raggiunta la piazza del paese. Qui, frequentemente,
intrattenevo questi miei amici a discorrere piacevolmente di caccia, di "passo" e soprattutto di colombacci, di "coumbi". In quel tempo questo sport era
vivo, generoso e leale e assorbiva tutti i miei interessi, tutte le mie facoltà.
Logico quindi che Campiglia, con i suoi affili di intenso bazzico di selvatici,
fosse palestra ideale per soddisfare la mia passione. Di tutto il resto mi
interessavo soltanto marginalmente e quindi anche della zona del magico
"rinforzato", assurdamente, conoscevo assai poco Cosi come ignoravo che la
grande serenità dei miei amici, la ricchezza interiore da essi posseduta fosse
generata dalla frequenza attiva e operante di questa terra meravigliosa. Ma
quando poi finalmente, penetrata l'intima essenza dell’oggetto di tanta
dedizione, posavo lo sguardo su quel mare verde, sui grappoli d'uva, promessa
viva e profumata di delizie immediate e future, quando sostavo all'ombra densa e
accogliente di quei rari fichi dai frutti saporosi in cui parevano essersi date
convegno tutte le essenze aromatiche di questa terra felice, quando mi
protendevo, anelante, verso i rami estremi di un pesco solitario dai piccoli
frutti colorati con toni accesi e vellutati, quando, preso dal silenzio e dalla
fragranza di tutte le cose, sostavo in contemplazione di quel piccolo mondo di
cui ogni elemento pareva suggerirmi un ricordo, una risonanza della mia
esistenza, sentivo levarsi nell'aria una indefinibile sensazione di beatitudine
che mi penetrava nel cuore. Anche il vento, che, nella sua urgenza verso
l'ignoto, smuove tutte le cose, pareva voler contribuire ad eccitare anche i
moti dell'anima. Allora dubbi e perplessità si dissolvevano e tutto acquistava
significato e precisa ragione di essere.