MONUMENTI MEGALITICI NEL GOLFO DELLA SPEZIA
(dalle Memorie della Società Lunigianese G. Cappellini, Vol.III, 1922, pagg.123-
128)
La strada mulattiera che dal paese di Biassa (Comune della
Spezia) sale al valico di Sant'Antonio (m. 500) per poi discendere ai luoghi di
Biassa in Tramonti (Trans montes), dove quei villici vanno a compiere le fatiche
della vendemmia, appena varcata la sella si biforca, e, mentre il ramo
principale conduce ai luoghi dell'Angelo Custode e di Fòssora, l'altro, volgendo
a sinistra e verso mezzogiorno, porta ai luoghi di Schiaa e di Mnesteèi. (Mnesteèi è tradotto nelle carte topografiche e nautiche ad orecchio Monasterolo
o Monasterello, io credo di aver dimostrato che la forma dialettale procede
direttamente dal cognome romano Mnestaeus, che dovette essere quello del primo
proprietario romano del fundus. Cfr. Giornale Storico della Lunigiana, XI, 1921,
pp. 228-230). Questo sentiero traversa da prima quasi orizzontalmente una bella
selva di pini prospettando un meraviglioso panorama di mare, di paesi, di seni e
promontori, di colline verdeggianti degli ubertosi pampini da cui si spreme uno
dei più celebrati vini del mondo. (A proposito di questi vini, che fan parte del
tipo delle Cinque Terre, Plinio asserisce che: "Etruriae palman Luna habet"
Hist. Nat. XIV, Per la storia di questi vini cfr. il mio scritto "Quale fosse il
vinum lunense" nel Giornale Storico della Lunigiana, II, 1910, pp. 64-71), poi,
ad un gomito del monte, a circa 500 metri dal valico, si allarga in un piazzaletto a semicerchio graziosamente ombreggiato di pini. Ivi, dal lato della
montagna, costrutta una rozza panchina di muro a secco con pietre sbozzate,
sopra la quale quei contadini, che portano in ispalla, depongono le some per
riposarsi; di faccia, verso il mare, s'innalza un grosso monolite, di pietra
serena, formato a piramide irregolare, rizzato in quel punto per opera
dell'uomo, e recante sul vertice una croce di ferro. Quei di Biassa chiamano la
Croce di ferro e il luogo e il monumento. In origine il masso era accompagnato
da altri due di minori dimensioni, che vi sorgevano a fianco; uno dei quali si
vede ora rovescio lì presso, dal lato di mezzogiorno; e l'altro venne
trasportato a far parte della panchina di cui ho dianzi fatto cenno. In paese
vive ancora chi li vide ritti tutti e tre; e v'è chi ricorda che il luogo era
prima chiamato la croce di legno; segno evidente che quella di ferro venne
sostituita ad un'altra precedente, caduta per vecchiaia. Intorno alla località
corrono in Biassa paurose leggende, arrivateci vaghe e confuse, e però
difficilmente ricostruibili, ma che provano come quelle pietre ritte fossero nei
secoli oggetto di superstizioni popolari. Si narra che attorno ad esse fu più
volte veduto comparire il diavolo a mettere in fuga i passanti terrorizzati;
stranezza che mal s'accorda col segno della redenzione sovrapposto alla pietra
maggiore, e che mostra come più antiche della croce fossero quelle tradizioni,
che la croce non è riuscita mai ad estirpare. Il diavolo infatti, a quanto mi si
narra, è stato riveduto colà ancora non son molt'anni.Io ritengo che si tratti
di un antico menhir "cristianizzato". E' appena necessario ricordare ai lettori
delle Memorie che cosa siano i menhirs. I menhirs son pietre gregge innalzate
artificialmente sul suolo. La parola deriva dal basso brettone men (pietra) e
hir (lunga o dritta), e sono noti anche col nome di peulvans da peul (colonna) e
men. S'incontrano, più che altrove, sul suolo francese, dove i maggiori
abbondano nella penisola armoricana. La forma di essi ricorda spesso press'a
poco un cono, un cilindro, una piramide irregolare; alcuni son costituiti da un
blocco interamente grezzo, altri mostrano tracce di rozze scalpellature. Si
calcola che in Francia i menhirs superino il numero di seimila; pochi invece se
ne sono scoperti in Italia, e questi nelle Puglie, dove pure son venuti in luce
dei dolmens, altri monumenti megalitici, che spesso si trovano associati con i
menhirs. In Corsica pure sono abbastanza frequenti, e vi son chiamati o stantare
o monaci od anche colonne .
( Cfr. A, DE MORTILLET, Monuments megalithiques de la Corse, Afas Rouen,
1883, p. 599.
Per i menhirs delle Puglie si può confrontare: ANGELO MOSSO,
Le origini della civiltà mediterranea, Milano, 1910, pp, 180-183. In Terra
d'Otranto il prof. De. Giorgi di Lecce ne contò 68.). Non è difficile che, con
ricerche intese allo scopo, un numero maggiore se ne scopra nel territorio della
penisola; bisogna per altro andar cauti nell'indagine, giacché certe rocce
naturali in forma di guglia possono essere facilmente confuse con i menhirs
artificiali. Il più alto dei menhirs conosciuti è quello di Locmariaquer (Morbihan,
Francia) che misura circa 20 m. e 50 cm.; vengono in seguito altri due di circa
11 m., e uno di oltre 10; quindi le misure scendono a 9, 8, 7, 6 metri e meno
ancora, fino a raggiungere la sola altezza di 3 o 4 metri. Nessun paese d'Europa
fuori di Francia possiede menhirs più alti di quello di Plesidy (Cotes -
du - Nord) che si eleva a 12 m. e 12 cm.Il vero scopo dei menhirs è tuttora un
problema. Delle varie ipotesi affacciate in proposito nessuna riposa sopra dati
positivi. Traduco, riassumendo, dall'opera magistrale del Dechelette: "Dobbiamo
considerare i menhirs come divinità feticce" o idoli primitivi, o almeno come
simboli religiosi, simili a quei betili cui gli antichi popoli semiti offrivano
sacrifici? saranno stati innalzati per commemorare a traverso i secoli le
memorie di grandi avvenimenti, come fatti di guerra o trattati di alleanza;
ovvero, in certi casi, per segnare i confini di due territori, per servire da
indicatori di sepolcri, di necropoli o di dolmens? "Alcuni hanno tentato di
spiegare il problema praticando degli scavi ai piedi di questi megaliti.
Dappertutto si sarebbero riscontrati carboni e, in molti casi, dei percussori,
delle pietre per macinare il grano, dei raschiatoi delle punte di freccia, dei
cocci di stoviglia, delle ceneri frammiste a frammenti d'osso. P. du Chatellier
ne concluse che i menhirs avessero avuto, come i dolmens e i tumuli, una
destinazione funeraria. Ma quei trovamenti si mostrano ben poveri di fronte alle
scoperte dolmeniche, mentre, d'altra parte, la natura dei resti ossei rimane
indeterminata. "L'erezione dei grandi menhirs si riattacca, secondo ogni
apparenza, agli antichi culti litolatrici, le cui vestigia abbondano presso un
gran numero di popoli specialmente nell'oriente semitico. Il culto dei
betili sopravvisse fino alla fine del paganesimo nella regione greco-romana, ma
ogni ravvicinamento non giustificherebbe in alcun modo l'ipotesi dell'origine
orientale dei culti litolatrici d'Occidente. La venerazione delle pietre non è
che la forma ordinaria d'un feticismo grossolano, comune a tutti i popoli
primitivi. "Un carattere religioso, che non escluderebbe d'altra parte una
destinazione funebre o commemorativa, fu attaccato fin dalle origini ai veri
menhirs, o grandi pietre innalzate artificialmente. Le credenze superstiziose di
cui sono circondati, le pratiche bizzarre di cui sono oggetto sono senza dubbio
la sopravvivenza di qualche consacrazione originale. Dopo la propagazione del
Cristianesimo il simbolo della nuova religione fu posto sopra qualcuna delle
vecchie pietre sacre, che i primi apostoli delle nostre campagne non osavano
sempre rovesciare. Si conosce un gran numero di questi menhirs cristianizati,
cioè sopportanti una croce, a volte innalzata sulla cima della pietra antica, a
volte incisa o scolpita sopra una delle sue facce .
( Manuel d'Archeologie prèhistorique celtique et
gallo-romaine par JOSEPH DEcHELETTE, Paris 1908, pp. 438-441).
Per ciò che riguarda l'età di tali monumenti, pare che non
sia da mettere in dubbio che fossero stati eretti all'epoca neolitica, come
sembra indicare la loro associazione frequente con i dolmens e le allées
cuvertes, o la loro presenza nelle vicinanze di questi megalitici. "E'
evidente", sono ancora parole del Dechelette, "che i grandi menhirs della
Brettagna e delle regioni vicine sono l'opera dei costruttori dei grandi dolmens.
Così negli uni come negli altri si manifesta l'orgoglioso sforzo di qualche
casta dominatrice, fiera di affermare la propria potenza con opere gigantesche e
imperiture" . "Ma noi ignoriamo totalmente a quale epoca rimontino i più
recenti. E' probabile che le pietre ritte non abbiano mai cessato di essere
circondate d'una sorta di culto; nelle pratiche superstiziose attualmente in uso
sopravvivono le credenze delle primitive religioni. Ritorniamo al menhir di
Biassa. Come ha già detto, e come appare chiaramente dalla fotografia, si tratta
di un grave blocco di pietra forte, press’a poco in forma di rozza piramide a
base irregolarmente rettangolare. Per renderne l'aspetto più regolare fu
scalpellato in qualche punto nella parte più bassa, non è possibile dire se al
tempo della sua erezione o all’epoca dell’adattamento al culto cristiano.
L'altezza maggiore del masso è di m. 2,30 dalla parte che fronteggia il mare;
nell'opposto fianco, volto verso la montagna, non sorpassa i m. 1,80 dal piano
di campagna fino alla base della croce, che è di ferro tondo, battuto, e alta
cm. 65. I fianchi maggiori misurano alla base m. 1,50, mentre i minori non
superano i 90 cm. Che si tratti di un vero menhir parmi si evinca dalle seguenti
considerazioni:
1) Il blocco non è una roccia in posto, che si elevi
naturalmente dal suolo; vi si osserva dal lato a mare la sottostruttura di
piccoli blocchetti a secco per metterlo e mantenerlo in posizione verticale;
2) il blocco fu trasportato sul posto da località non
lontana, ma anche non immediata; l'arenaria eocenica in quel punto non è pietra
serena, bensì un macigno argilloso, schistoso, giallastro, ricco di mica; un
praticissimo cavatore di Biassa mi asseriva, senza esserne richiesto, che la
roccia del masso è di "vena diversa" da quella del posto, e che perciò la
pietra dev’essere stata trasportata.
3) l 'innalzamento del masso non può essere opera medioevale
né moderna a scopo religioso, cioè nell'intento di sovrapporvi il simbolo
cristiano. Nel medio evo non si concepiva, e, meno ancora, ne' tempi moderni si
concepisce l'idea di trasportare da un luogo ad un altro, e d'innalzare un rozzo
e pesante monolite per collocarvi una croce; a questo scopo si sarebbe
costrutto, o si costruirebbe, un pilastro in muratura o una colonnetta; mentre
nel caso nostro è evidente che si è profittato di un masso trovato già in
elevazione, e già di per se oggetto di un primitivo culto diverso;
4) la strettissima analogia con i frequenti casi che si
riscontrano particolarmente fuori d'Italia, suffraga abbondantemente l'ipotesi;
5) le credenze superstiziose di cui anche la nostra pietra è
circondata tendono sempre maggiormente a ravvicinarla ai monumenti megalitici
preistorici.
Il menhir non è grande, ben lontano dalle colossali
dimensioni dei maggiori di cui ho discorso brevemente, ma non è nemmeno dei più
piccoli conosciuti. Bisogna pensare che le località adiacenti non offrono
trovanti di proporzioni maggiori, e che, anche con i potenti mezzi attuali di
scavazione, difficilmente si ottengono da quei nuclei amigdaloidi di pietra
serena dell'eocene blocchi più grandi. E bisogna pensare ancora alla enorme
difficoltà del trasporto in montagna di un monolite di quella mole, per cui
dovettero essere impiegati sforzi straordinari, trattandosi di un masso che pesa
oltre quattro tonnellate, senza contare la parte infissa nel terreno, il cui
volume non si può calcolare. I problemi che si pongono per i menhirs già noti è
ovvio che debbano porsi a riguardo del nostro, ed è anche naturale che debbano,
almeno per ora, rimanere senza una soluzione: in quale epoca venne innalzata la
nostra pietra? quale ne fu la primitiva destinazione? A tali problemi nel
caso nostro è necessario aggiungerne un terzo, non meno importante: quale fu il
popolo che eresse il monumento? A noi manca ogni dato per giungere su questo
punto ad una conclusione; per cui dovremmo accontentarci di supposizioni; a meno
che degli scavi sistematici fortunati, praticati in prossimità del menhir, non
ci porgessero questa e le altre soluzioni che attendiamo. Del qual successo, per
altro, è lecito dubitare fortemente.
ALCUNE OSSERVAZIONI INTORNO AD UN ANTICO " LAPIS TERMINALIS "
( dalle Memorie della Società Lunigianese G. Cappellini, Vol III (1922) pagg.
147-150 )
Stimo opportuno di segnalare un curioso monumento in cui mi
abbatei per caso nel marzo 1922, traversando i monti che cingono il Golfo dalla
parte di ponente, mentre andavo a riconoscere il menhir di Biassa, che ho
recentemente pubblicato. Proprio sulla costa, che forma lo spartiacque di quelle
montagne, corre tra i boschi e le radure un comodo sentiero spesso pianeggiante;
all'altezza di 530 m., fra la località ove sorge tuttora un edifizio, chiamato
Telegrafo, che già serviva appunto per il telegrafo aereo, e il valico di S.
Antonio sopra Biassa, a un terzo circa di strada fra questo punto e l'altro,
s'incontra sulla sinistra del sentiero al confine preciso fra gli attuali comuni
della Spezia e di Riomaggiore una pietra terminale, che già indicava i confini
dei territori di Riomaggiore e di Bjassa. La descrivo brevemente, a
completamento dei particolari che ne offre l'unito disegno. Si tratta di
una massiccia stele di macigno, alta, dal piano di campagna, m. 0,75, di una
larghezza massima di m. 0,67, e di un massimo spessore di 0,35. La forma del
masso è amigdaloide, alquanto appuntita alla sommità la faccia principale, che è
rivolta a tramontana, è più convessa della posteriore quasi appiattita, e
presenta, fortemente scolpita, una figura di significato incerto, della quale il
nostro disegno dà una idea esatta. Si direbbe come un trittico, sormontato da un
frontone arrotondato; nel cui mezzo è scavata una coppella di pochi centimetri
di diametro e di profondità; i due scompartimenti laterali sono divisi dal
mediano per mezzo di due liste perpendicolari, che non arrivano al tratto
orizzontale sottostante, ma terminano poco più sopra con due ingrossamenti
ripiegati in fuori. Nel mezzo di questo scompartimento mediano è scolpito un
piccolo tratto perpendicolare, dando così l'impressione che l'artefice abbia
voluto riprodurre una rozza figura umana munita di braccia, gambe e piedi, e del
segno del sesso. Senonchè la figura si chiude come in un cerchio formato dalla
stessa linea di quelle che dovrebbero essere le braccia, a cui s'aggiungono in
basso due brevi appendici perpendicolari; e così l'antropomorfismo si perde.
Sopra il capo di questa figura è rozzamente scolpita una croce greca, il cui
braccio inferiore taglia la linea della figura, ed entra nel campo; un'altra
croce patente, più regolarmente scolpita, si vede in basso, a fior di terra. Nel
rovescio, cioè nella faccia opposta, è pure scolpita una croce, di forma latina,
assai ben lavorata e di scultura che io giudico affatto recente. Nel fianco a
sinistra di chi osserva la stele figura una quarta croce più piccola ma affatto
simile alla seconda sopradescritta, sottoposta ad una scodella profondamente
incavata nel sasso. L 'altro fianco non offre scolture. Io pensai dapprima che
la misteriosa figura del davanti fosse intesa a raffigurare l'insegna della
comunità di Riomaggiore, che accampa tre monti sorgenti dal mare; ma dovetti poi
mettere da parte tale possibilità di identificazione per diverse considerazioni.
Occorre in fatto troppa buona volontà per convincersi della identità della
nostra figura con l'arme di Riomaggiore; e, d'altra parte, ammettendola., si
affaccia subito l'obbiezione che mancherebbe l'arme dell'antica comunità di
Biassa, recante in campo una torre, che non dovrebbe mancare in monumento
siffatto. Osservo poi che la prima croce non venne scolpita al tempo della
incisione della figura perchè, come si è detto, ne traversa la linea superiore,
e perché è scolpita con incisione più profonda della linea che attraversa; per
cui è necessario ammettere che la croce, anzi, che tutte le croci sono
posteriori alla primitiva scoltura. Perciò io sono venuto nella persuasione che
la stele già esistesse ab immemorabili sul punto dove sorge tuttora, e recante
sul diritto la sola figura enigmatica sopra descritta con le relative due
coppelle; e che in tempi molto posteriori vi siano state scolpite le croci nei
lati che fronteggiano i territori delle due parrocchie. Cosa che dovette
accadere nel XIII o XIV secolo. Riferirei pertanto la stele con la primitiva
scoltura a tempi remotissimi, opera di popoli che abitavano la regione del Golfo
nell'epoca del bronzo, o meglio, nel neolitico, data la rozzezza della scoltura
che non pare prodotta da strumento metallico; supposto che parmi avvalorato dal
fatto delle due scodelle incise, che sono motivi caratteristici di quell'epoca,
e della cui presenza non sapremmo d'altronde spiegare la ragione in un monumento
medioevale. Quale fosse in origine la destinazione di questo piccolo menhir
scolpito sarà forse vano investigare. Si tratterà di una stele funeraria, da
ravvicinare alle numerose statue-menhirs trovate nella regione, ovvero della
rappresentazione di qualche divinità feticcia, in relazione, diretta o fortuita,
con le analoghe pietre dei culti litolatrici? Ce lo diranno ulteriori scoperte
del genere, che non credo improbabili per chi volesse andare in traccia di
inciosi rupestri per queste montagne. O non sarà invece un antichissimo termine
fra tribù e tribù tra vico e vico, tra castello e castello di questa regione,
perpetuatosi a traverso epoche diverse preistoriche e storiche, e
"cristianizzato" nel basso medioevo? Forse questa spiegazione sarà la
maggiormente probabile, dacchè sappiamo che pietre di confine ( Cfr. ANTONIO
MAGNI, Pietre capelliformi nuovamente scoperte nei dintorni di Como, nella
Rivista archeol. Della Provincia di Como, fasc. 43-44, giugno 1901, pp.78-80 );
e qui le nostre figurano precisamente nelle facciate rivolte verso i due
territori confinanti. Che cosa rappresenta infine la figura enigmatica? E' un
secondo mistero; ed io non troverei altro raffronto e ravvicinamento che in un
disegno grossolano tracciato sopra un lastrone di arenaria che fa parte del
dolmen del Trou-aux-Anglais nel comune di Aubergenville presso Versailles.
( A. DE MORTILLET, Figures gravées et sculptées sur des
monuments megalitiques des environs de Paris, nel Bulletin de la Societé d'Anthropologie
de Paris, Séance du 19 oct. 1893.)
Faccia il lettore il confronto con la figura che riproduco;
vedrà, fra l'altro, che anche qui abbiamo il particolare di una coppella nello
scompartimento di destra. Ma nemmeno il chiarissimo paletnologo francese azzardò
una spiegazione dell'enigma, che io pure, dal mio canto, lascio insoluto,
restando pago di averlo proposto.