Ubaldo Mazzini

10-06-12

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UBALDO MAZZINI


menhir.

MONUMENTI MEGALITICI NEL GOLFO DELLA SPEZIA

(dalle Memorie della Società Lunigianese G. Cappellini, Vol.III, 1922, pagg.123- 128)

La strada mulattiera che dal paese di Biassa (Comune della Spezia) sale al valico di Sant'Antonio (m. 500) per poi discendere ai luoghi di Biassa in Tramonti (Trans montes), dove quei villici vanno a compiere le fatiche della vendemmia, appena varcata la sella si biforca, e, mentre il ramo principale conduce ai luoghi dell'Angelo Custode e di Fòssora, l'altro, volgendo a sinistra e verso mezzogiorno, porta ai luoghi di Schiaa e di Mnesteèi. (Mnesteèi è tradotto nelle carte topografiche e nautiche ad orecchio Monasterolo o Monasterello, io credo di aver dimostrato che la forma dialettale procede direttamente dal cognome romano Mnestaeus, che dovette essere quello del primo proprietario romano del fundus. Cfr. Giornale Storico della Lunigiana, XI, 1921, pp. 228-230). Questo sentiero traversa da prima quasi orizzontalmente una bella selva di pini prospettando un meraviglioso panorama di mare, di paesi, di seni e promontori, di colline verdeggianti degli ubertosi pampini da cui si spreme uno dei più celebrati vini del mondo. (A proposito di questi vini, che fan parte del tipo delle Cinque Terre, Plinio asserisce che: "Etruriae palman Luna habet" Hist. Nat. XIV, Per la storia di questi vini cfr. il mio scritto "Quale fosse il vinum lunense" nel Giornale Storico della Lunigiana, II, 1910, pp. 64-71), poi, ad un gomito del monte, a circa 500 metri dal valico, si allarga in un piazzaletto a semicerchio graziosamente ombreggiato di pini. Ivi, dal lato della montagna, costrutta una rozza panchina di muro a secco con pietre sbozzate, sopra la quale quei contadini, che portano in ispalla, depongono le some per riposarsi; di faccia, verso il mare, s'innalza un grosso monolite, di pietra serena, formato a piramide irregolare, rizzato in quel punto per opera dell'uomo, e recante sul vertice una croce di ferro. Quei di Biassa chiamano la Croce di ferro e il luogo e il monumento. In origine il masso era accompagnato da altri due di minori dimensioni, che vi sorgevano a fianco; uno dei quali si vede ora rovescio lì presso, dal lato di mezzogiorno; e l'altro venne trasportato a far parte della panchina di cui ho dianzi fatto cenno. In paese vive ancora chi li vide ritti tutti e tre; e v'è chi ricorda che il luogo era prima chiamato la croce di legno; segno evidente che quella di ferro venne sostituita ad un'altra precedente, caduta per vecchiaia. Intorno alla località corrono in Biassa paurose leggende, arrivateci vaghe e confuse, e però difficilmente ricostruibili, ma che provano come quelle pietre ritte fossero nei secoli oggetto di superstizioni popolari. Si narra che attorno ad esse fu più volte veduto comparire il diavolo a mettere in fuga i passanti terrorizzati; stranezza che mal s'accorda col segno della redenzione sovrapposto alla pietra maggiore, e che mostra come più antiche della croce fossero quelle tradizioni, che la croce non è riuscita mai ad estirpare. Il diavolo infatti, a quanto mi si narra, è stato riveduto colà ancora non son molt'anni.Io ritengo che si tratti di un antico menhir "cristianizzato". E' appena necessario ricordare ai lettori delle Memorie che cosa siano i menhirs. I menhirs son pietre gregge innalzate artificialmente sul suolo. La parola deriva dal basso brettone men (pietra) e hir (lunga o dritta), e sono noti anche col nome di peulvans da peul (colonna) e men. S'incontrano, più che altrove, sul suolo francese, dove i maggiori abbondano nella penisola armoricana. La forma di essi ricorda spesso press'a poco un cono, un cilindro, una piramide irregolare; alcuni son costituiti da un blocco interamente grezzo, altri mostrano tracce di rozze scalpellature. Si calcola che in Francia i menhirs superino il numero di seimila; pochi invece se ne sono scoperti in Italia, e questi nelle Puglie, dove pure son venuti in luce dei dolmens, altri monumenti megalitici, che spesso si trovano associati con i menhirs. In Corsica pure sono abbastanza frequenti, e vi son chiamati o stantare o monaci od anche colonne .

( Cfr. A, DE MORTILLET, Monuments megalithiques de la Corse, Afas Rouen, 1883, p. 599.

Per i menhirs delle Puglie si può confrontare: ANGELO MOSSO, Le origini della civiltà mediterranea, Milano, 1910, pp, 180-183. In Terra d'Otranto il prof. De. Giorgi di Lecce ne contò 68.). Non è difficile che, con ricerche intese allo scopo, un numero maggiore se ne scopra nel territorio della penisola; bisogna per altro andar cauti nell'indagine, giacché certe rocce naturali in forma di guglia possono essere facilmente confuse con i menhirs artificiali. Il più alto dei menhirs conosciuti è quello di Locmariaquer (Morbihan, Francia) che misura circa 20 m. e 50 cm.; vengono in seguito altri due di circa 11 m., e uno di oltre 10; quindi le misure scendono a 9, 8, 7, 6 metri e meno ancora, fino a raggiungere la sola altezza di 3 o 4 metri. Nessun paese d'Europa fuori di Francia possiede menhirs più alti di quello di Plesidy  (Cotes - du - Nord) che si eleva a 12 m. e 12 cm.Il vero scopo dei menhirs è tuttora un problema. Delle varie ipotesi affacciate in proposito nessuna riposa sopra dati positivi. Traduco, riassumendo, dall'opera magistrale del Dechelette: "Dobbiamo considerare i menhirs come divinità feticce" o idoli primitivi, o almeno come simboli religiosi, simili a quei betili cui gli antichi popoli semiti offrivano sacrifici? saranno stati innalzati per commemorare a traverso i secoli le memorie di grandi avvenimenti, come fatti di guerra o trattati di alleanza; ovvero, in certi casi, per segnare i confini di due territori, per servire da indicatori di sepolcri, di necropoli o di dolmens? "Alcuni hanno tentato di spiegare il problema praticando degli scavi ai piedi di questi megaliti. Dappertutto si sarebbero riscontrati carboni e, in molti casi, dei percussori, delle pietre per macinare il grano, dei raschiatoi delle punte di freccia, dei cocci di stoviglia, delle ceneri frammiste a frammenti d'osso. P. du Chatellier ne concluse che i menhirs avessero avuto, come i dolmens e i tumuli, una destinazione funeraria. Ma quei trovamenti si mostrano ben poveri di fronte alle scoperte dolmeniche, mentre, d'altra parte, la natura dei resti ossei rimane indeterminata. "L'erezione dei grandi menhirs si riattacca, secondo ogni apparenza, agli antichi culti litolatrici, le cui vestigia abbondano presso un gran numero di popoli specialmente nell'oriente semitico.  Il culto dei betili sopravvisse fino alla fine del paganesimo nella regione greco-romana, ma ogni ravvicinamento non giustificherebbe in alcun modo l'ipotesi dell'origine orientale dei culti litolatrici d'Occidente. La venerazione delle pietre non è che la forma ordinaria d'un feticismo grossolano, comune a tutti i popoli primitivi. "Un carattere religioso, che non escluderebbe d'altra parte una destinazione funebre o commemorativa, fu attaccato fin dalle origini ai veri menhirs, o grandi pietre innalzate artificialmente. Le credenze superstiziose di cui sono circondati, le pratiche bizzarre di cui sono oggetto sono senza dubbio la sopravvivenza di qualche consacrazione originale. Dopo la propagazione del Cristianesimo il simbolo della nuova religione fu posto sopra qualcuna delle vecchie pietre sacre, che i primi apostoli delle nostre campagne non osavano sempre rovesciare. Si conosce un gran numero di questi menhirs cristianizati, cioè sopportanti una croce, a volte innalzata sulla cima della pietra antica, a volte incisa o scolpita sopra una delle sue facce .

( Manuel d'Archeologie prèhistorique celtique et gallo-romaine par JOSEPH DEcHELETTE, Paris 1908, pp. 438-441).

Per ciò che riguarda l'età di tali monumenti, pare che non sia da mettere in dubbio che fossero stati eretti all'epoca neolitica, come sembra indicare la loro associazione frequente con i dolmens e le allées cuvertes, o la loro presenza nelle vicinanze di questi megalitici. "E' evidente", sono ancora parole del Dechelette, "che i grandi menhirs della Brettagna e delle regioni vicine sono l'opera dei costruttori dei grandi dolmens. Così negli uni come negli altri si manifesta l'orgoglioso sforzo di qualche casta dominatrice, fiera di affermare la propria potenza con opere gigantesche e imperiture" . "Ma noi ignoriamo totalmente a quale epoca rimontino i più recenti. E' probabile che le pietre ritte non abbiano mai cessato di essere circondate d'una sorta di culto; nelle pratiche superstiziose attualmente in uso sopravvivono le credenze delle primitive religioni. Ritorniamo al menhir di Biassa. Come ha già detto, e come appare chiaramente dalla fotografia, si tratta di un grave blocco di pietra forte, press’a poco in forma di rozza piramide a base irregolarmente rettangolare. Per renderne l'aspetto più regolare fu scalpellato in qualche punto nella parte più bassa, non è possibile dire se al tempo della sua erezione o all’epoca dell’adattamento al culto cristiano. L'altezza maggiore del masso è di m. 2,30 dalla parte che fronteggia il mare; nell'opposto fianco, volto verso la montagna, non sorpassa i m. 1,80 dal piano di campagna fino alla base della croce, che è di ferro tondo, battuto, e alta cm. 65. I fianchi maggiori misurano alla base m. 1,50, mentre i minori non superano i 90 cm. Che si tratti di un vero menhir  parmi si evinca dalle seguenti considerazioni:

1) Il blocco non è una roccia in posto, che si elevi naturalmente dal suolo; vi si osserva dal lato a mare la sottostruttura di piccoli blocchetti a secco per metterlo e mantenerlo in posizione verticale;

2) il blocco fu trasportato sul posto da località non lontana, ma anche non immediata; l'arenaria eocenica in quel punto non è pietra serena, bensì un macigno argilloso, schistoso, giallastro, ricco di mica; un praticissimo cavatore di Biassa mi asseriva, senza esserne richiesto, che la roccia del masso è di "vena diversa" da quella del posto, e che perciò la pietra dev’essere stata trasportata.

3) l 'innalzamento del masso non può essere opera medioevale né moderna a scopo religioso, cioè nell'intento di sovrapporvi il simbolo cristiano. Nel medio evo non si concepiva, e, meno ancora, ne' tempi moderni si concepisce l'idea di trasportare da un luogo ad un altro, e d'innalzare un rozzo e pesante monolite per collocarvi una croce; a questo scopo si sarebbe costrutto, o si costruirebbe, un pilastro in muratura o una colonnetta; mentre nel caso nostro è evidente che si è profittato di un masso trovato già in elevazione, e già di per se oggetto di un primitivo culto diverso;

4) la strettissima analogia con i frequenti casi che si riscontrano particolarmente fuori d'Italia, suffraga abbondantemente l'ipotesi;

5) le credenze superstiziose di cui anche la nostra pietra è circondata tendono sempre maggiormente a ravvicinarla ai monumenti megalitici preistorici.

Il menhir non è grande, ben lontano dalle colossali dimensioni dei maggiori di cui ho discorso brevemente, ma non è nemmeno dei più piccoli conosciuti. Bisogna pensare che le località adiacenti non offrono trovanti di proporzioni maggiori, e che, anche con i potenti mezzi attuali di scavazione, difficilmente si ottengono da quei nuclei amigdaloidi di pietra serena dell'eocene blocchi più grandi. E bisogna pensare ancora alla enorme difficoltà del trasporto in montagna di un monolite di quella mole, per cui dovettero essere impiegati sforzi straordinari, trattandosi di un masso che pesa oltre quattro tonnellate, senza contare la parte infissa nel terreno, il cui volume non si può calcolare. I problemi che si pongono per i menhirs già noti è ovvio che debbano porsi a riguardo del nostro, ed è anche naturale che debbano, almeno per ora, rimanere senza una soluzione: in quale epoca venne innalzata la nostra pietra? quale ne fu la primitiva destinazione?  A tali problemi nel caso nostro è necessario aggiungerne un terzo, non meno importante: quale fu il popolo che eresse il monumento? A noi manca ogni dato per giungere su questo punto ad una conclusione; per cui dovremmo accontentarci di supposizioni; a meno che degli scavi sistematici fortunati, praticati in prossimità del menhir, non ci porgessero questa e le altre soluzioni che attendiamo. Del qual successo, per altro, è lecito dubitare fortemente.

ALCUNE OSSERVAZIONI INTORNO AD UN ANTICO " LAPIS TERMINALIS "

( dalle Memorie della Società Lunigianese G. Cappellini, Vol III (1922) pagg. 147-150 )

Stimo opportuno di segnalare un curioso monumento in cui mi abbatei per caso nel marzo 1922, traversando i monti che cingono il Golfo dalla parte di ponente, mentre andavo a riconoscere il menhir di Biassa, che ho recentemente pubblicato. Proprio sulla costa, che forma lo spartiacque di quelle montagne, corre tra i boschi e le radure un comodo sentiero spesso pianeggiante; all'altezza di 530 m., fra la località ove sorge tuttora un edifizio, chiamato Telegrafo, che già serviva appunto per il telegrafo aereo, e il valico di S. Antonio sopra Biassa, a un terzo circa di strada fra questo punto e l'altro, s'incontra sulla sinistra del sentiero al confine preciso fra gli attuali comuni della Spezia e di Riomaggiore una pietra terminale, che già indicava i confini dei territori di Riomaggiore e di Bjassa. La descrivo brevemente, a completamento dei particolari che ne offre l'unito disegno. Si  tratta di una massiccia stele di macigno, alta, dal piano di campagna, m. 0,75, di una larghezza massima di m. 0,67, e di un massimo spessore di 0,35. La forma del masso è amigdaloide, alquanto appuntita alla sommità la faccia principale, che è rivolta  a tramontana, è più convessa della posteriore quasi appiattita, e presenta, fortemente scolpita, una figura di significato incerto, della quale il nostro disegno dà una idea esatta. Si direbbe come un trittico, sormontato da un frontone arrotondato; nel cui mezzo è scavata una coppella di pochi centimetri di diametro e di profondità; i due scompartimenti laterali sono divisi dal mediano per mezzo di due liste perpendicolari, che non arrivano al tratto orizzontale sottostante, ma terminano poco più sopra con due ingrossamenti ripiegati in fuori. Nel mezzo di questo scompartimento mediano è scolpito un piccolo tratto perpendicolare, dando così l'impressione che l'artefice abbia voluto riprodurre una rozza figura umana munita di braccia, gambe e piedi, e del segno del sesso. Senonchè la figura si chiude come in un cerchio formato dalla stessa linea di quelle che dovrebbero essere le braccia, a cui s'aggiungono in basso due brevi appendici perpendicolari; e così l'antropomorfismo si perde. Sopra il capo di questa figura è rozzamente scolpita una croce greca, il cui braccio inferiore taglia la linea della figura, ed entra nel campo; un'altra croce patente, più regolarmente scolpita, si vede in basso, a fior di terra. Nel rovescio, cioè nella faccia opposta, è pure scolpita una croce, di forma latina, assai ben lavorata e di scultura che io giudico affatto recente. Nel fianco a sinistra di chi osserva la stele figura una quarta croce più piccola ma affatto simile alla seconda sopradescritta, sottoposta ad una scodella profondamente incavata nel sasso. L 'altro fianco non offre scolture. Io pensai dapprima che la misteriosa figura del davanti fosse intesa a raffigurare l'insegna della comunità di Riomaggiore, che accampa tre monti sorgenti dal mare; ma dovetti poi mettere da parte tale possibilità di identificazione per diverse considerazioni. Occorre in fatto troppa buona volontà per convincersi della identità della nostra figura con l'arme di Riomaggiore; e, d'altra parte, ammettendola., si affaccia subito l'obbiezione che mancherebbe l'arme dell'antica comunità di Biassa, recante in campo una torre, che non dovrebbe mancare in monumento siffatto. Osservo poi che la prima croce non venne scolpita al tempo della incisione della figura perchè, come si è detto, ne traversa la linea superiore, e perché è scolpita con incisione più profonda della linea che attraversa; per cui è necessario ammettere che la croce, anzi, che tutte le croci sono posteriori alla primitiva scoltura. Perciò io sono venuto nella persuasione che la stele già esistesse ab immemorabili sul punto dove sorge tuttora, e recante sul diritto la sola figura enigmatica sopra descritta con le relative due coppelle; e che in tempi molto posteriori vi siano state scolpite le croci nei lati che fronteggiano i territori delle due parrocchie. Cosa che dovette accadere nel XIII o XIV secolo. Riferirei pertanto la stele con la primitiva scoltura a tempi remotissimi, opera di popoli che abitavano la regione del Golfo nell'epoca del bronzo, o meglio, nel neolitico, data la rozzezza della scoltura che non pare prodotta da strumento metallico; supposto che parmi avvalorato dal fatto delle due scodelle incise, che sono motivi caratteristici di quell'epoca, e della cui presenza non sapremmo d'altronde spiegare la ragione in un monumento medioevale. Quale fosse in origine la destinazione di questo piccolo menhir scolpito sarà forse vano investigare. Si tratterà di una stele funeraria, da ravvicinare alle numerose statue-menhirs trovate nella regione, ovvero della rappresentazione di qualche divinità feticcia, in relazione, diretta o fortuita, con le analoghe pietre dei culti litolatrici? Ce lo diranno ulteriori scoperte del genere, che non credo improbabili per chi volesse andare in traccia di inciosi rupestri per queste montagne. O non sarà invece un antichissimo termine fra tribù e tribù tra vico e vico, tra castello e castello di questa regione, perpetuatosi a traverso epoche diverse preistoriche e storiche, e "cristianizzato" nel basso medioevo? Forse questa spiegazione sarà la maggiormente probabile, dacchè sappiamo che pietre di confine ( Cfr. ANTONIO MAGNI, Pietre capelliformi nuovamente scoperte nei dintorni di Como, nella Rivista archeol. Della Provincia di Como, fasc. 43-44, giugno 1901, pp.78-80 ); e qui le nostre figurano precisamente nelle facciate rivolte verso i due territori confinanti. Che cosa rappresenta infine la figura enigmatica? E' un secondo mistero; ed io non troverei altro raffronto e ravvicinamento che in un disegno grossolano tracciato sopra un lastrone di arenaria che fa parte del dolmen del Trou-aux-Anglais nel comune di Aubergenville presso Versailles.

( A. DE MORTILLET, Figures gravées et sculptées sur des monuments megalitiques des environs de Paris, nel Bulletin de la Societé d'Anthropologie de Paris, Séance du 19 oct. 1893.)

Faccia il lettore il confronto con la figura che riproduco; vedrà, fra l'altro, che anche qui abbiamo il particolare di una coppella nello scompartimento di destra. Ma nemmeno il chiarissimo paletnologo francese azzardò una spiegazione dell'enigma, che io pure, dal mio canto, lascio insoluto, restando pago di averlo proposto.

 

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UBALDO    MAZZINI
 

RACCONTI   DIALETTALI

 


O   GIÜDISSIO.

Sicome quei de Biassa i savevo che o giüdissio i n'è mai tropo,  'n  giorno i se misso d'acordio 'n fra tüti de miae d'avene de l'autro. E de fati i mandéno dui de loiautri aa Speza per vede de catane na partia.   Come de fati i venso, e domanda de sa, domanda de là, échete che aa fin i trevo ün che per coionali i ghe fa, diza:
- Andevene lì da o spessiao, ch'i  ve  'n venda quant'a vorè.
E i vàn da o spessiao, e i ghe dizo:
- A voreessimo  'n   po' de giüdissio; o signoia i ghe n'ha?
O spessiao i mangia a fogia, e da birbo i pensa de faghela.  
- Me n'è proprio arivà  'n  barilotto stamattina beo fresco, - i gh'aresponda.
E i va de là  'nt' o stansioto, che gh'ea giüsto restà proprio aloa  'n ratin vivo  'nt'o  rateè.  I pia sto rato, i o ciga  ben ben  ente 'n  beo papeoto, e i o dà ai dui biassei:
- Mié de tegnilo ben, - i ghe diza, - e da no aravilo en fin ch'a ne sii a ca, che se no dunca i svampoissa.     
- Che la ne se debüta, - i ghe dizo i biassei, - e contenti come Pasque i s'aremeto a strade damezo ae gambe per tornassene  'n  sü.
Ma quand'i en là  'n  po'  ciü  'n sü  de Pegassan, i s'afermo per piae  'n  po' de respio; e lì a coiosità  tant'è  la  i  tenta:
- A te , Nineo, s'a miassimo  'n  po'  com'i  è  fato?                            
- E te n'ai sentì, che se t'arevi  'r  papeo  o giüdissio  i  svampoissa?
- Eh , solo pe' en  bresin ch'a  l' aresaremo  torna!
Quelo che ne voreva i n'aveva ciü vogia che l'autro; sicchè i se meto presto d'acordio, e quelo che l'aveva 'n  man i se meta  adazin  a  ravie o scartoceto.
O rato, lassélo fae a lü,  apena raverto  'n  spisso, tàfete!  I scapa via come 'r  vento e i s'enfia ente 'n  foo de na mazea de 'n  pozon ch'ea  lì  daa  rente.
I dui biassei i resto lì tüti dui come o Retoe de Beghè; i  s'amio 'n  po' 'nte  'r moro, e poi d'asbrivo i se cacio adosso aa mazea, e i comenso a desfala  ch'i  paevo  pagà.
E i l'avevo squasi fornì de desfae, quando passa de lì ün ch'i  i veda e i s'aferma, i sta 'n  po'  a miali, e poi i ghe fa, diza:
- Ma a m'o  dizé  'n  po' cose l'è ch'a fé?
- Aemo perso o giüdissio.
E quelo:
- Me paa anca a me, me paa.!

O   SO


Vense  'n  mente  'n  viagio ai Biassei che, sicome d'inverno l'è  squasi sempre cativo tempo, se poderi  aremediaghe con metendo da parte o so che mia d'estade.
- Bela idea !   -  i fan  -  ma mia che no sacia quei de Rimazoe;  s'autodrè  i  se  'r  pio  loiautri essì!
E i van en zio per tüto  'r  paese enfin ch'i  trevo a bote ciü grossa.  I la regüo ento ciassao dea gese, i ghe levo  'r  fondo de sima, e i aspeto mezzodì che ghe bata drento o so proprio  'n   cioca.
E quando l'è  l'oa, d'asbrivà i ghe cacio sorve o sé fondo, e i sero ben a bote,  pertanto che o so i ne scapasse  dae  fissidüe.

A   LÜNA.


Quei de Biassa na vota i se misso 'nte  a  testa d'arivae aa lüna e de piassela.
Stüdia stüdia, cos'a  vorè 'n  veità,  ècheve  ch'i  trèvo  a  manea  d'arivaghe.
I van en zio per tüto 'r  paese, fin en Tramonti, a  piae quante barì  i  trèvo, e  i  i  porto   ent'o ciassao dea gese. E lì i  meto, üna addosso a l'autra,  per miae d'arivae  aa lüna .
Ma tant'è,  ciü'  i  ghe 'n  metevo, e ciü a lüna l'ea  daa  lünte.
E meta barì, e meta barì, e meta barì,  ècheve che a son de mèteghene  i  ne  'n  trevo  ciü manco üna.
- Pecato -  i fan  - pecato che l'ea  squasi lì che la se tocava !
Ma i trevo sübito a manea de aremediaghe:
- A levemo - i dizo - quele de 'n  fondo, e  a  i metemo 'n  sima.
E de fati,  i  ataco  daa  prima…


A   NE   SEMO   CIÜ'   CHEI  !


Na vota paeci mezzadri de Biassa i venso aa Spèza, che o sé patron  i  aeva de  bisogno de legne e de socheti  che s'andava ente l'inverno.
Se smosse tü
ta a famiglia, omi, done, e fanti, e chi 'n spala chi 'n  testa tüti  i  portavo 'n  zü'  o  sé  cargo.
Quando i füno dar patron, cossì ledi com'i eo, i omi coi cavei e a barba lünga, e  e done  despinacià, o sé patron i ghe fé, diza :
- E a ne l'aé vergogna a vegnie 'n  sità  a  sta  manea ?  Armeno  ch'a ve füssi  'n  po'  'ato arecato  aa  mei !
Sti biassei, che ghe paeva de stae ben d'avansso,  i  se  mieno 'n  po' 'nte  'r moro, e i  disso 'ntra de loo: Er  patron  i  diventa  mato !
Ma ècheve che 'nte a sea, prima che i biassei i  füsso repartì,  ècheve  che  se  meta n'aigua grossa come i pomi, che 'nte  'n   momento la  sgonfia i canai e la dà  de  fèa.  E poi i lampi, tron e  saete  che  la  paeva  o  dilübio.
Siché  'r  patron i diza ai sé mezzadri:
- Stesene chì a dormie de sorve ent'o soeè, che manaman s'andé  'n  sü con sto tempo ne ve süceda  quarcò  pea  strade !
E i fé mete a dormie de sorve ent' o  soeè, ente dea pagia  e  dee coverte.
E poi ghe ven  n'idea. 
I ciama o servitoe, e quand'i  en  adormì  tronchi come sochi  i ghe fa fae a barba e  dae  ben arecato  ai  cavèi.
Ma aa matin presto, apena ciao, quando i se  desvegio  e  i  se  vedo ün con l'autro  tüti sperlecà, neti e puliti che l'è  'n  piazze e deferenti da come i  eo  prima,  écheve  ch'i  dan  ente 'n  cianto e ente 'n lamento, chi desvegio tüto 'r  palassio.
Cose  gh'è, cose ne  gh'è,  tüti  i  sauto zü de 'n  leto  e i coro sü  pee  scae  per miae  cos'entraven, e 'r  patron essì,  saatà  anca  lü ,  i  cora ent'o  soeè  per  savee   cose gh'è  stà.
E i biassei quand'i 'r vedo, i  ghe  dizo :
- Sior  patron,  sior  patron,  a  ne  semo  ciü'  chei !

O   RETOE   NEVO


N'autra vota a Biassa ghe morse  'r  parco.
Cos'a voré 'n veità, l'ea tanto tempo ch'i gh'ea, che i biassei  i  se gh'eo  affessionà  come  a   sé pae, e  i  ghe  volevo 'n  ben  de  l'anima.  Siché a ne ve digo gnente s'i cianzevo e s'i se despeavo .
I ghe feno 'n  mortoio  coi  mostassi, e  i  ghe  feno  die  tante  messe  e dae tante benedission, che s'i  n'andò  drito 'n  paradiso,  mia  de  die  che l'è proprio perché o Signoe i ne ghe 'r voreva.
E quando se tratò de a nomina d'o nevo, i mandéno a Sarzana da 'r Vesco per raccomandasse ch'i miasse  de  nominàghene  ün ch'i  füsse  proprio come  quelo.
E 'r  Vesco  i  ghe mandò  'n  bonasson  de 'n  prete,   e  i  ghe  raccomandò  de  miae  de  tratae ben, de fae  e  cose  come  se  deve,  de  governae   'nsoma  a  parochia  coo  santo  timoe  de  Dio,  con  caità  e  con  passensia.
E  o  retoe  nevo  i  andé,  e  i  comensò  a  fae  e  sé  cose  a  modo  e  a  verso,  segondo  che gh'aveva  dito 'r   Vesco,  e  segondo  a  sé  cossensia.
Ma  tant'è  ai  biassei, ch'i  avevo sempre  en  menti   e  ente 'r   chèe  quel'autro,  ghe  paeva  che o nevo  i  n'andasse.  I  predicava  defeente,  i  cantava  defeente,   i  confessava  defeente.
Tanto che 'n giorno  i  se  decido,  e  i  remando  da 'r  Vesco  a  dighe  che  mia  scangiae er parco,   perché  i  ne  va  per  questo,   per questo  e  per  questo.
E  'r  Vesco ,  pe' er  queto  vive,  i  se  la  pia 'n  santa passensia ,  e  i  ghe  scangia  o  retoe,  e  i se  ghe  raccomanda  torna  de  vede  de  contentali  mei  ch'i  pè,  miando,  s'i pè ,  de  fae  com'i  veno.
E  o  retoe  nevo  i  va  a  piae  possesso :  e   i  serca,  i  domanda,  i  s'anzegna  per  savee  com'i fava  e  cos'i fava  o  retoe  morto,  per  miae  de  imitalo 'nte  tüto ,  per vede de ne fae nasse  de  lamente  e  de  marcontenti.
Ma sì,  l'ea  come  dae  l'incenso  ai  morti !  I  biassei  i  avevo  sempre  ente  a  testa  quel'autro,  e  tant'è  manco  sto  chì  i  ne  fava  gnente  de  ben:  i  confessava defeente,  i cantava  defeente,  i predicava defeente.
Sichè, visto che manco per  lü  ne  gh'ea  da  fae  ben , st'autro  nevo  retoe 'n  beo  giorno i ciapa 'r  portante,   e  i  se'n  torna a Sarzana.   I  va  dar  Vesco  e  i  ghe  diza:
- Sia  mei  de  mandàghene  n'autro,  perché  paa  che  manco  me  a  ne  vago  ben.
- Ma come l'è  sta  facenda ? -  i  fa 'r  Vesco  enragià  come  'n  can.
- Cose sia  vè ch'a  ghe  digo ?  i  vèno  ün  ch'i  faga  tüto  come  quelo,  e  come  l'è 'mpossibile?
- Se dà  a  combinassion  che  proprio lì da 'r  Vesco,  presente  a  sti  descorsi,  gh'ea  n'autro  prete,  n'assidente  se  ghe  n'ea ;  che  quando  i  senta  sta  stoia  de  Biassa  i  diza  ar Vesco:
- Se  sia  me  ghe  manda  me ,  sia  vedeà   ch'arangio  tüto  ente  quatro  e  quatr'oto !
- E  andé  voi,  -  i  gh'aresponda  'r  Vesco,  -  e  miemo  de  fornila   na  vota !
Come  de  fati,  st'autro  retoe  i  va,  e  i  pia  possesso  dea  parochia.
Quand'i  monta  a  l'autaio  per  die  a  prima  messa,  i  se  meta  a  gridae  forte:
- A  fao  tüto  come  quelo !   A  digo  tüto  come  quelo!…
I  biassei  i  aresto  lì  a  boca  averta  a  sentie.   E   lü  torna:
- A  fao  tüto  come  quelo,  a  digo  tüto  come  quelo !…
A  l'indoman  i  monta  ente 'r pürpito,  i  se   fa  o  segno  dea  croze  e  poi  i  comensa a predicae  cossì:
- A  fao  tüto  come  quelo !  A  digo  tüto  come  quelo ! ….
Er  popolo  i  comensa  a  mogognae.   Prima  i  mogogna,  poi  i  se  meta  a  gridae  e  i  sorta de 'n  gese.
A  ne  ve  digo  gnente,  i  bordeli  che  nassa   Er  parco  i  scapa 'n  ca,  i  se  ghe  tapa,  e  i spranga  e  porte.  Soto  aa  finestra  fisc-ci  e  ürli  che  ghe  paa  l'arsidiao.
Parta  sübito  na  comission  per  Sarzana,  che  la  se  presenta  davanti  ar  Vesco.
- A  ne  se  contenti  manco  de  sto  chì ?
- I   è   pezo  che  i  autri,  sior  Vesco !
- E  cos'i  fa ?
- I  fa  tüto  come  quelo,  i  diza  tuto  come  quelo !…
- Ma  aloa  i  è  proprio  quelo   ch'a  sercavi !   Andeve  a  fae  büzarae !
A  stoia  la  n'o  disa  s'i  gh'andasso.


E   CANDEE   BAGNE


Giüsto  quando  ghe  morse  o  retoe,  e  ch'i  ghe  feno  quelo  mortoio  cossì  de lüsso sté  a sentie  ai  Biassei  cose  gh'entravense.  Apena  che 'r morto i sortì de 'n geze se misse a brüscoae, e a po' per vota, prima che 'r mortoio i füsse arivà ar camposanto, che aloa i ea anca 'r vecio 'n Codeon, la vense n'aigua posti esse, che a ne ve digo gnente se se bagnò morto e vivi.
Ma 'r pezo l'è che l'aigua la ghe  smorsè e candee, che quando i retornono a Biassa i eo süpe sgoe. E sti povei Biassei i eo despeà ch'i ne savevo come fae con ste
candee bagnà, che i s'apensavo che aoamai i ne se podesso ciü assende.   - E aoa come se fa , Neneo ? se doman te mèi te, te toca andae soto tera ao scüo !
Ma a Biassa i trevo sempre rimedio a tüto. E cossì anca sta vota i porténo tüte e candee ente 'r primo forno ch'i trovéno scaudà, per lassaghele enfin ch'i füsso assüte.  I saréo ben a boca der forno, e i s'asseténo lì de fèa a spetae l'efeto.
E quando a séa destata la sgoava zü dae fissidüe der forno, tüti contenti sti biassei i gridavo :
- Mia, Neneo ! t'hai visto com'i sgoo ? l'è tüta l'aigua che se 'n va.


A   VACA   E   L'ERBA.



A no so se la füsse a Biassa  o  a  Rimazoe ; ma l'è serto che na vota en sima ar campanin dea gese  gh'ea  nassü  tant'erba  che  l'ea  'n  piazee.
- A te, Neneo, - i  fa  ün, - ne  mia  lassala  perde,  no !   mia  dala  a  qualche  vaca.
E  defati, i  van  a  piae  'nte  a  stala a vaca der  preosto  per  portala  aa  pastüa en sima ar campanin.
Ma spuncia  che  te  spuncia  a  vaca  la  ne  podeva  passae  daa  porte.
- Speté a me, Ninei, ch'a  l'ho  trovà  a  manea  ! - i  fa  ün.
E i fa 'n lasso con na suga, i  dà  vota  ar  cola  dea  vaca, e  i  monta 'n  sima  ar campanin enseme  coi  sé  compagni,  e  i  compensa  a  tiala  sü.
A vaca, povea crista, la se strangolava, e la meteva fèa 'n parmo de lengua. E quei soto i gridavo:
- A te, Neneo, mia   come  la  s'arida, che  la  comensa  a  vede  l'erba !


A   LENGUA   BELA
 



A son de sentisse a die da tüti che a Biassa i parlo mao, na vota i Biassei i fenino per perde a passensia, e  i  disso :
- A vorremo faghe  'n  po'  vede a  sti  rompicoje  ch'a  saremo  parlae  mèi  che  loo ?
Come de fati i se ghe misso de pünto, e i mandéno  dui de luiautri aa Spèza per savee da quarchedün d'arescuzo qual'i  è 'r posto ar mondo onde se parla mèi, per mandaghe poi a 'mpaae  e  insegnala  a  tüta  Biassa.
E  sti  dui  zia  de  sa, zia  de là,  finalmente  i'ncocio ün de quei ch'andava 'n zio a vende e lümee  de  leton :
- Quelo  lì, statene  Neneo,  io  sa  de següo,  ch'i  è  de quei che zia 'r mondo.
E  i  se  gh'avezino, e  con  bone  manee  i  ghe  fan  l'adimandita :
- O  bel'omo,  a  n'o  dizé  per  piazze  qual'i  è  'r  paese  ar  mondo onde se parla mèi de tüti ?
- L'è Siena, - i  ghe  risponda  'r  foresto.
- E  onde  la  resta  sta  Siena  ?  lüntan ?     
- Eh, eh !    hai volia - i ghe fa , e  coe  man  i  ghe  mostra  lazü'  verso  e  Grafagnane, con de die : mia  passae  de  là, e  quand'a  sé  là  ghe n'è  anca  autretanto !
-  Grassie d'o sentimento ! - i  ghe fan i  dui  Biassei, e  tüti  contenti i se meto a strade de tramezo  ae  gambe, en  camin  pe' andae a Siena  a 'mpaae  a  lengua  bela.
E camina camina camina, a ne ve so die quanto i caminasso, ma der beo de següo, senza mai 'ncontrae  n'anima  che  ghe  savesse  die  donde  la  se  trovasse sta  Siena onde se parla cossì ben.
Ma finalmente 'n beo giorno, ch'i  eo 'n  za  strachi  morti,  e  squasi pentì d'avela fata, finalmente  na  matin  a bon'oa   i   'ntopo  pea  strade  n'omo,  e  ao  solito  i  ghe  fan :
- A  voi, bel'omo, a  n'o  saveessi  die  onde  se  passa  pe  andae  a  Siena ?
E  quell'omo  sübito  i  gh'aresponda  'n  rima :
- Varcate il fiume, e poi salite il monte,
- E allora vi troverete Siena di fronte !   
A ne ve digo gnente  i nostri düi biassei com'i aresto  !  I spalanco i oci  e  oece a sta manea,  e  i ghe  fan :
- Com'aé  'ito,  bel'omo ?  resiselo  'n   po'  torna !
E  lü  de  fati  i  ghe  l'aredisa :
- Varcate il fiume, e poi salite il monte,
- E allor vi troverete Siena a fronte !
- Grassie tanto d'o sentimento, - i ghe fan i dui biassei. E  poi  ün  i  se  vorta  a  quel'autro, e i ghe  disa :
- A te,  Neneo ; cos'a  gh'andemo  ciü  a  fae  a  Siena ? oamai  a  lengua  a  o  savemo come l'è.

                                                         

 

 

ALTRI POETI  DIALETTALI

 

QUANDO TE CAPIE’

 

Quando te capiè…che libertà

Ne ve die: fae come te paa;

quando te capiè…che democrasia

ne ve die: esse tüti a ‘n pao;

quando te capiè…che l’amòe

ne ve die: fae a l’amòe;

quando te capiè…che esse forti

ne ve die: spacàe tüto;

quando te capiè… che ó te dirito

i fenissa onde coménsa quelo di àotri;

quando te capiè…che travagiàe bezogna

e che o repòzo i n’è l’ossio de’r pelandron;

quando te capiè…che ó demóo ciü bèo

te lè drento a o te servèo

e che ‘r piazé ciü grande

i è ‘n bazin ‘nt’a fronte a ‘n figio tóo;

 

quando ‘nfin te capiè…d’avee capì

a belessa de sté còze

che te pae i th’a ‘nsegnà,

ch’i pào facili e i ni én,

finarmente, o figio méo…

te saè ‘n “òmo grande”

te saè ‘n “òmo vèo” !!! 

           Giuseppe CARDUCCI

 

 

 

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Ultimo aggiornamento: 04-01-12