Aneddoti, piccole storie di vita e del lavoro contadino d’altri
tempi.
di
Piero Lorenzelli
E’ interessante
conoscere, ai fini storici e di costume, come vivessero nel borgo i
nostri antenati Campigliesi, durante il periodo 1850/1930. A questo
proposito abbiamo scritti e testimonianze di quell’epoca provenienti:
dalla consultazione dell’Archivio parrocchiale (redatto a partire dal
1740), dal testo pubblicato nel Maggio del 1907 dall’antropologo Sittoni
intitolato “I viticoltori di Tramonti”, che descrisse così bene lo
spaccato di usi e costumi degli abitanti dei paesi di Biassa e Campiglia,
ciò che li accomunava e ciò che li divideva, fino alla più diretta
testimonianza di storia tramandata oralmente dai genitori ai loro
figli, e così via sino ai giorni nostri. Per Campiglia, l’anno 1930 ha
rappresentato il periodo di massimo splendore, la sua popolazione
contava allora 470 anime, ed era andata fino a quel tempo sempre in
crescendo. E' da rimarcare una particolarità: gli abitanti del paese
rispondevano a due soli cognomi, Sturlese, in maggioranza, e Canese. La
comunità contadina ebbe poi da quella data una lenta ma continua
regressione, causata soprattutto dalla comparsa di un piccolo insetto
proveniente dalla Francia, un afide, chiamato filossera, che attaccò in
misura devastante, distruggendo le prosperose viti che erano state la
principale forma di sostentamento della popolazione locale. Da allora è
iniziato un lento ma consistente esodo dei residenti del paese verso
altri lidi alla ricerca di una migliore forma di vita e sopravvivenza.
Consultando gli antichi libri che si trovano in Parrocchia si riscontra
come, fino agli inizi del ‘900, un certo numero di Campigliesi fosse
analfabeta, prova ne sia che nel registro delle nascite ove era
richiesta la firma per esteso del capofamiglia, molti di loro apponevano
la croce. Nel passato però il paese ha dato anche i natali a figli che
si sono distinti nella vita sociale e politica della comunità. Uno degli
antenati campigliesi più rappresentativi è stato Canese Michele, nato
agli albori dell’800. Egli ebbe molti incarichi nell’ambito politico
locale; fu infatti il primo consigliere eletto a Campiglia chiamato a
sedersi fra i membri del consiglio comunale di Spezia: Campiglia era
parte integrante del circondario e comune di Spezia, con Genova allora
capoluogo della provincia. Fu eletto nel consiglio in base alla nuova
legge allora varata, che permise le elezioni con scrutinio separato
nelle frazioni rispetto al comune capoluogo. Tra le sue gesta si ricorda
che ebbe il privilegio nel 1853 di accompagnare per mano il principe di
Casa Savoia Umberto I, allora bimbo di 9 anni, diventato in seguito Re
d’Italia, in visita a Campiglia e luoghi limitrofi, proveniente
dall’albergo Croce di Malta di Spezia (ai tempi il nome della città
veniva indicato senza l’articolo determinativo che ha oggi). Nel 1865
durante la costruzione dell’Arsenale Militare ebbe un encomio scritto
dal Generale Domenico Chiodo progettista della grande struttura. Nella
motivazione viene ricordato il supporto del Canese per la fornitura di
pietre scalpellinate, tratte dalle cave della zona e modellate a mano da
specialisti del settore, tutti campigliesi. Un campigliese, questa volta
di adozione, tale Carro Pietro di Francesco nato a Spezia il 29 Giugno
del 1850 passa senz’altro alla storia del piccolo borgo collinare, per
altre motivazioni che vedremo in seguito. Il 5 Maggio del 1877 viene
assunto con la qualifica di “operaio di marina” presso l’Arsenale
Militare di Spezia: nel 1879 incontra la sua anima gemella a Campiglia,
con lei si sposa e si trasferisce ad abitare in paese. Ogni giorno, per
innumerevoli anni, fino alla sua pensione, datata 6 Agosto 1908, egli al
mattino presto si reca al lavoro laggiù nello stabilimento militare
percorrendo la mulattiera, formata da 2050 scalini, a cui vanno aggiunti
almeno 3 Km. di viottoli appena tracciati e sconnessi per quell’epoca.
Alla sera deve percorrere a ritroso la solita strada che come si
ricorderà si inerpica sino a raggiungere un’altitudine di 400 metri,
incurante delle varie condizioni metereologiche che troverà. Al termine
del suo rapporto di lavoro, perpetuatosi per 31 anni, può godere di una
pensione di “diritto” per anzianità di servizio. Al momento della
cessazione del rapporto di lavoro la sua paga giornaliera ammontava a
Lire 3.50. La Corte dei Conti dell’epoca gli liquida quindi una pensione
di lire 630. Certamente il nostro antenato Carro Pietro, amava ed era
legato moltissimo alla sua sposa, per essersi sottoposto per anni ad una
vita così dura, fatta di lavoro e di spostamenti: probabilmente anche
il vivere a Campiglia gli piaceva. I genitori crescevano i figli, e fin
dalla più tenera età insegnavano loro come diventare dei provetti
contadini dediti alla coltivazione della vite ed in generale alla cura
dei campi, disposti su terrazzamenti (canti o fasse), ove anticamente i
principali strumenti di lavoro per movimentare la terra erano: la
picchetta (picheta) tipo di zappa molto stretta e ricurva e la zappetta
(sapeta) attrezzo a forma di foglia ricurva con punta; più recentemente
questi attrezzi si sono evoluti nella forma dando luogo a: la zappa (pigon),
maggiormente usata per lavorare i terreni seminativi e il bifolco
(biforco), particolare attrezzo con corto manico e due rebbi ricurvi,
esclusivamente usato nei vigneti. La vanga in queste zone non ha mai
trovato utilizzo, specialmente nei vigneti, data la particolare
disposizione di filari (paede) e a maggior ragione nei pergolati (autedi),
ove è impossibile farne uso. E’ notorio però che l’uso della zappa e del
bifolco sia molto più faticoso di quello della vanga, ma il vignaiolo,
con giuste motivazioni, è ormai abituato da secoli a lavorare curvo,
quasi con la faccia a livello del terreno, con questi due attrezzi ormai
idealmente divenuti i prolungamenti naturali delle braccia. I
Campigliesi, dediti così alla cura dei campi, trascuravano gli studi e
la scuola: solo intorno agli inizi del ’900 vennero istituite a
Campiglia le elementari, si trattava dei primi tre anni di corsi gestiti
da una sola maestra, chi aveva le possibilità economiche, poteva
concedersi di distogliere l’aiuto di un figlio, anche in tenera età, dal
lavoro dei campi: il bambino poteva così, avendone le capacità,
frequentare le elementari: doveva allora giornalmente scendere a piedi
fino a Marola lungo la mulattiera, e relativo viaggio di ritorno. Tra i
paesani che ebbero la possibilità di intraprendere con successo gli
studi vi fu Gio Batta Sturlese, nato nel lontano 1777 e mandato dal
padre Gaspare in seminario a Sarzana. Il ragazzo divenne, nel 1803,
cappellano della Chiesa di Santa Caterina in Campiglia, dove rimase sino
al 1804. La chiesa di Campiglia era ancora dipendente dalla Chiesa di
San Martino di Biassa, non poteva vantare propri territori e confini
precisi. Nell’anno 1839 in paese fu costituita la prima fabbriceria
parrocchiale; don Gio Batta fu richiamato, risultando quindi il primo
parroco rettore della parrocchia divenuta definitivamente autonoma da
quell’anno. Rimase in carica fino alla sua morte, a 80 anni, nel 1857 e
fu tumulato nel deposito dei parroci, luogo che ancora oggi è indicato e
visibile, al centro del presbiterio della chiesa. Le famiglie erano di
solito numerose, 8 o 9 figli non erano infrequenti: vivevano tutti
insieme sotto lo stesso tetto, fino al giorno delle nozze, i figli erano
considerati una risorsa, braccia per il lavoro nei campi. Le donne
avevano un compito molto importante nell’ambito e nell’organizzazione
della famiglia contadina: in tenera età veniva loro insegnato a cucinare
e preparare i pasti, che spesso dovevano essere portati lontano, ai
genitori partiti all’alba e affaccendati nel lavoro dei campi fino al
tramonto; in assenza della madre, la più grandicella aveva la
responsabilità di seguire i fratelli più piccoli, di accudire (nudrigae)
gli animali da cortile, condurre al pascolo pecore e capre. Diventate
giovanette imparavano l’arte del cucito e della maglia, ai ferri e
all’uncinetto, compresa la filatura della lana grezza, erano
quindi
pronte per il matrimonio, e si potevano formare così nuovi nuclei
famigliari. Molti coloni campigliesi possedevano due o più pecore
utilizzate per fornire lana, latte e prodotti derivati formaggio (formaiete)
e principalmente ricotta (recotu). La tosatura delle pecore si svolgeva
in primavera inoltrata, nei giorni di pieno sole, solitamente in aie o
nella grande area di Piazza della Chiesa, ove gli animali venivano
condotti, e manualmente le donne procedevano, fra vociare e belati vari,
alla raccolta della lana. La stessa dopo opportuno lavaggio, depurata
dalle varie intrusioni, era pronta per costituire l’imbottitura di
materassi da letto o per essere filata: le mani esperte delle
campigliesi, per mezzo di una canna aperta ad una estremità (ruca)
procedevano al lavoro per realizzare il cosiddetto filato. Dal batuffolo
di lana grezza posto sull’estremità della ruca e con l’ausilio di un
fuso di legno realizzavano un lungo filamento ritorto di lana che mano a
mano veniva avvolto intorno al fuso stesso. Analoga operazione si
eseguiva con l’ausilio di un secondo fuso. I due singoli filamenti
venivano poi avvolti in un unico gomitolo, dopodiché si riutilizzava uno
dei due fusi per ritorcere insieme i due filamenti. Il prodotto finale
veniva avvolto avvalendosi dell’avambraccio, solitamente il sinistro,
nella parte tra pollice ed indice e zona inferiore del gomito, formando
una matassa (a seta), che al termine della lavorazione veniva lavata.
Questo filato a due capi veniva impiegato per fare calze, biancheria
intima, etc. Ove si dovevano realizzare opere di una certa consistenza e
dimensione era necessario l’impiego di un filato di partenza di più
grande diametro, si poteva con il procedimento descritto inserire un
terzo filo, venivano create così: coperte, scialli, tappeti, solette (soete)
per rivestire l’interno degli scarponi. Nell’ipotesi che le matasse di
lana dovessero essere utilizzate per confezionare maglie di colore
bianco uniforme, si procedeva alla sbiancatura. Si trattava di un
procedimento empirico che consisteva nel porre il filato di lana in un
grosso vaso di terracotta, detto concone (concon), lo stesso che veniva
utilizzato per fare il bucato, sul fondo del quale veniva bruciato dello
zolfo, che con i suoi fumi provvedeva a sbiancare le matasse o
eventualmente un indumento di lana già confezionato. Sia le matasse che
il capo in questione venivano posti sull’apertura del vaso ancora umidi
per la preventiva lavatura. A lavoro compiuto, dalla matassa si
realizzavano uno o più gomitoli che servivano per le future confezioni.
Le sapienti mani delle donne campigliesi avvolgevano i gomitoli
traendoli dalla matassa, facendosi di solito aiutare dai più giovani
della famiglia, che dovevano tenere la matassa, con le due braccia
allargate. I gomitoli che venivano avvolti, di solito presentavano due
fori ai poli estremi, segni della presa delle due dita, pollice ed
indice della mano sinistra, mentre la destra avvolgeva il filato con
movimento rotatorio, il gomitolo alla fine risultava essere ovale, di
notevole durezza a causa della tensione esercitata nell’avvolgere la
lana. Un particolare e caratteristico prodotto realizzato manualmente ai
ferri era il magliolo (maieo), maglia da indossare alla pelle, con
maniche lunghe o mezze, girocollo con bordi rifiniti con fettuccia (curdela),
con apertura sul davanti, provvista di due o tre bottoni (pomei) a mò di
chiusura; indumento molto pesante, veniva portata dagli uomini durante
le mezze stagioni e soprattutto d’inverno: nel periodo estivo si
indossavano le canottiere sempre confezionate con la lana. Anche le
mutande da uomo erano lunghe e rifinite sul fondo con la fettuccia. I
contadini erano ormai avvezzi al notevole prurito causato alla pelle che
una lana così grezza causava, però lì dentro si stava veramente al
caldo. Lo scopo dell’impiego della lana era duplice: proteggere il corpo
dall’umidità e dal freddo invernale e durante le dure fatiche nei campi
assorbire le abbondanti sudorazioni.
Un gran numero di uomini ed alcune campigliesi, data la modesta
condizione economica generale, erano soliti camminare a piedi nudi (descausi);
così scalzi, fin da piccoli, camminando si formava sotto la pianta del
loro piede una spessa uniforme callosità che permetteva di procedere
facilmente su terreno accidentato e sui sassi senza minimamente
risentirne. Oggi sembra impossibile, ma così scalzi si camminava nei
boschi anche durante la raccolta delle castagne, incuranti degli aculei
dei ricci che già si trovavano a terra. Le calzature acquistate in
città come gli zoccoli di legno o le scarpe di tela, erano le più
usate, le donne più ingegnose erano solite guarnire con tela gli
zoccoli grezzi acquistati o farsi, da sole scarpe di pezza per sé e per
tutta la famiglia. Le scarpe erano considerate un genere di lusso,
anche se necessario, venivano calzate solamente alla domenica e nelle
grandi occasioni, realizzate in pelle tinta di nero, suola in cuoio,
rigorosamente alte, sia per uomo che per donna, fornite di lunghe
stringhe (strinche), soltanto poche paesane potevano concedersi anche
scarpe basse stringate dotate di largo tacco. Per quelle dei lavoratori,
venivano inchiodati sotto la suola dei chiodi particolari sporgenti, più
di un centinaio per scarpa, alfine di ridurre al minimo il consumo della
suola stessa. Con l’uso continuo i chiodi (brochete) che si consumavano,
venivano rimpiazzati da altri nuovi; in paese esisteva l’artigiano
esperto (scarpao) in questo tipo di calzature. Per una più lunga
conservazione della tomaia, la stessa veniva spalmata con grasso di
maiale (sunsa). Quando i Campigliesi scendevano verso la città per
effettuare acquisti, portando sulle spalle legna da ardere o il barile (baiseo)
di vino contenente 25 litri, mentre il contenitore di legno da 40 litri
si chiamava barì, articoli che vendevano a clienti su prenotazione,
procedevano scalzi lungo la mulattiera che si raccordava con la strada
fino alla località Acquasanta, calzavano poi le scarpe che fino ad
allora avevano portato appese al collo, legate tra loro con le stringhe.
Dentro le scarpe, per colazione, ponevano le castagne bollite ancora con
la buccia (baleti), o in base al periodo dell’anno, fichi (fighi) secchi
avvolti in un pezzo di tela, generalmente a quadri bianchi e grigi (mandìlo
da grupo), perché veniva annodato sugli spigoli a mò di contenitore.
Allo scopo di difendersi dai raggi del sole i bambini e ragazzi
portavano in testa un basco, gli uomini o un cappello a falda del tipo
Borsalino o un tipo di basco con visiera (a bereta), sempre indossato
durante la giornata nei campi; le contadine al lavoro usavano coprirsi
il capo con un grande fazzoletto quadrato (mandìlo) piegato a triangolo,
allacciato con due lembi di vertice dietro, sulla nuca. Nel periodo
estivo per meglio proteggersi dal calore dei raggi del sole,
interponevano tra la testa ed il fazzoletto delle foglie di vite o di
fico. Molti degli uomini avevano ambedue i lobi delle orecchie bucati,
fin dalla più tenera età, e portavano dei semplici orecchini (pendin).
Gli uomini inoltre tenevano sempre la roncola (fausin) appesa alla
cintola di cuoio (coresa), attraverso un ferro modellato a forma di U,
attaccato alla parte posteriore della cintola stessa. A volte
sovrapposta alla cintola portavano in vita una corda (soga) arrotolata,
il cui scopo era quello di legare il carico di legna da trasportare
sulle spalle, o semplicemente un grosso fascio di erba, tagliata per
alimentare gli animali da cortile. Il contadino Campigliese, salve
rarissime eccezioni, aveva il suo destino segnato fin dalla nascita:
ogni giovane campigliese doveva diventare un buon vignaiolo, come il
padre, e continuare la coltivazione della vite, che gli avrebbe permesso
di sopravvivere dignitosamente per quell’epoca: se non aveva proprietà
fondiarie o terreni da coltivare, ma ne conosceva l’arte, prestava a
pagamento (giornadeo) la sua opera da altri viticoltori. Appena
grandicello seguiva il genitore dal quale imparava a muoversi con
disinvoltura nei terrazzamenti, nei boschi, alla marina; apprendeva
l’arte di costruire i muretti a secco, arte molto difficile che richiede
forza, occhio, ordine, equilibrio, fondamenti di idraulica, conoscenza
di come i sassi, e in un muro a secco sono migliaia, vadano spaccati ed
in quale ordine disposti. Il lavoratore dei campi doveva avere una
buona forza fisica, ma soprattutto una grande resistenza alla fatica che
tali aree obbligatoriamente imponevano, a causa anche della notevole
acclività (fino al 70 %); per spostarsi ogni giorno nei terreni, il
campigliese doveva scendere una lunga scalinata verso il mare, che al
termine della giornata lavorativa, doveva essere ripercorsa a salire.
Naturalmente mai nessuno scendeva o saliva quei luoghi senza caricare
pesi sulle spalle: chi intendeva costruire in paese una casa, portava al
ritorno dai campi almeno un grosso masso di arenaria, materiale molto
comune in quel versante. Per impiantare un nuovo vigneto in un
terrazzamento ancora da dissodare, era necessario fare un’operazione di
bonifica (pastenae), scavare cioè nel campo più di una fossa o trincea,
a seconda della larghezza del campo, dentro cui venivano gettate
ramaglie di alberi di pino, fogliame ed altro: in questa fossa così
costituita erano posizionate le nuove barbatelle a distanze prestabilite
fra loro, il tutto poi ricoperto di terra; e così avanti a salire,
sempre in profondità, circa ottanta centimetri, per mantenere l’umidità
necessaria alla sopravvivenza della pianta. Questo faticoso lavoro
manuale si eseguiva con piccone e pala o un piccolo cestino (corbela) di
corteccia di castagno intrecciata, recante due manici, da usare in
alternativa alla pala per trasferire la terra più a monte. Le piante di
vite così messe a dimora crescevano e, nel corso degli anni producevano
grappoli di uva di diverse varietà, le più diffuse erano: trebbiano, uva
di bosco, vermentino, tenoese. Annualmente durante la vendemmia si
sceglievano le migliori qualità di uve ed i più bei grappoli, per
produrre il noto rinforzato (renforsà). Gli antichi erano soliti
lasciare che la pianta si sviluppasse, diventando sempre più grossa, in
diametro, e rigogliosa; la vite è una pianta secolare, se non attaccata
da malattie specifiche o da parassiti dannosi continua la sua normale
crescita. Il tronco che fuoriusciva dal terreno, senza nessun vincolo
meccanico e libero di crescere a contatto con il terreno, rimaneva
letteralmente sdraiato, in forza del suo peso. Dopo un’opportuna
potatura e zappatura effettuata nei mesi da gennaio a marzo, i monconi
restanti venivano ancorati su paletti di erica (sarvardin) conficcati
nel terreno a distanza dallo stesso di centimetri 40. Nel mese di
maggio terminata la fase di arresto della vita vegetativa, la pianta
cominciava a germogliare facendo crescere e sviluppando vari nuovi
tralci (boti). Normalmente venivano tolti quelli in eccesso lasciandone
solo due (brochi) con lo scopo di far crescere e sviluppare lunghi
tralci, che dopo la fioritura avrebbero generato i grappoli. Detti
tralci, erano tenuti sollevati dal terreno per mezzo dei soliti paletti
di erica stipa. I nuovi butti venivano fermati a questi supporti per
mezzo di legature costituite da ginestre. A partire dagli anni ’20
anche le donne hanno iniziato a dedicarsi alla legatura, che richiede
particolare perizia e manualità. Le ginestre usate provenivano da
cespugli, in Liguria abbondano, preventivamente tagliati a zero nel
mese di dicembre, permettendo alla pianta di far crescere nuovi virgulti
che venivano tagliati, per la raccolta, nel mese di agosto e
accuratamente selezionati in base alla lunghezza e utilizzati nei mesi
da gennaio ad aprile. I materiali e quindi la tecnica per legare le
vigne si sono sempre differenziati rispetto ad altre zone vicine della
provincia. Altrove venivano e vengono tuttora usati i rami dei salici (sarso),
la pianta di salice trovava sviluppo a Campiglia solamente nel versante
affacciato sullo spezzino.
L’arte
di edificare il muro a secco, perché di arte trattasi, era propedeutica
al mestiere di muratore di allora, almeno per quanto concerne la
costruzione di edifici con muri perimetrali in pietra: bastava quindi
impadronirsi della tecnica di legare con la malta i sassi ed un buon
passo per iniziare il nuovo mestiere era realizzato, la buona volontà
non mancava di certo. Esistono ancora oggi molti manufatti (casotti), ad
uno o due piani, con tetto a due falde, copertura a capanna, o ad un
solo spiovente, costruiti con un lato contro la roccia del monte o con
il medesimo che sfrutta il preesistente alto muro a secco, i più piccoli
di dimensioni solitamente si presentano con perimetro a forma quadrata
con lato di quattro metri: alcuni realizzati con la tecnica di posa del
sasso a secco, altri edificati con calce bianca spenta, impastata con
terra del luogo. Rispetto al paese che giace a 400 metri di altitudine,
queste costruzioni si trovano a livelli più bassi, in genere a quote dai
100 ai 250 metri, ed il loro scopo era quello di appoggio e riferimento
per il lavoro nei campi più vicini al mare. Generalmente il manufatto,
che bene si adatta all’andamento del terreno, era disposto su due piani,
tutto realizzato in pietra arenaria. L’accesso recava nel relativo muro
un architrave realizzato in sasso: la riquadratura, cioè gli stipiti
della porta in ingresso erano costruiti con blocchi di arenaria scalpellinata a forma di parallelepipedo, la soglia di ingresso sempre
in arenaria di fattura simile a quella dei “tacchi”. La copertura del
tetto era in lastre di pietra (ciapon) anche di 5 centimetri di
spessore, lo stesso tipo di pietra era anche per il pavimento, ma in
assenza di lastricatura il calpestìo risultava essere il terreno
livellato. Le lastre, a frattura predeterminata, venivano tratte da
cave situate nei dintorni del paese, sul versante di La Spezia, i travi
in legno per soffitti e solai erano di castagno locale. Al piano terreno
generalmente vi era una piccola cantina o una stalla, in grado di
accogliere una o due pecore; ad un livello di altezza intermedio vi era
una specie di soppalco non abitabile (stredo), in esso venivano
alloggiate le ceste, le paniere, gli attrezzi da lavoro, il fieno per le
bestie, i tralci recisi delle viti (sarmente) ed altro; nel periodo
della vendemmia veniva utilizzato per stendervi l’uva vendemmiata, posta
a seccare per poi produrre il vino “rinforzato”. Al piano terreno nella
parete contro monte, veniva ricavata tramite scavo manuale, una nicchia
di dimensioni variabili (cambeoto), ove si metteva il vino, in fiaschi o
bottiglie, per mantenerlo fresco. Sopra allo stredo, se il casotto era a
due piani, vi era un tavolato calpestabile a mo di solaio (soao), il
piano superiore così poteva essere abitato, vi si accedeva da un altro
ingresso indipendente, realizzato in guisa di quello già descritto. Per
usufruire dell’altro accesso si doveva salire sul terrazzamento a
livello più alto, tramite una serie di gradini di pietra arenaria
incastonati a sbalzo nel muro a secco perimetrale esterno. Il vano
corrispondente al piano superiore comprendeva una stanza in cui erano
disposte alcune sedie, altre povere cose, un tavolo ed un grosso
giaciglio (saccon) su cui si coricava per riposare. Il saccon consisteva
in un involucro esterno di tela, di tipo iuta, riempito di paglia di
grano proveniente dalla battitura del frumento. Manufatti di più grande
metratura e volume, sviluppati su due piani, erano adibiti per vere e
proprie fisse dimore ove i contadini vivevano, nelle zone del Persico (Persego)
e del Navone (Navon), cioè molto vicini al mare; si trattava di
abitazioni con più stanze di piccola metratura, bassi soffitti, simili a
quelle del borgo, dotate di piccole finestre incorniciate con pietra
arenaria, cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, caminetti, o
luoghi ove si cucinava a legna, al piano terreno in area più fresca, le
cantine o le stalle. Il vignaiolo che viveva in quelle zone tutto
l’anno era avvantaggiato rispetto ai contadini del paese, avendo i
vigneti e oliveti da coltivare più vicini alla residenza, ma aveva il
problema della difficoltà di raggiungere il paese. Il vino prodotto,
anche in grande quantità veniva in parte venduto: bisogna ricordare che
in quei tempi il territorio era completamente coltivato, i terrazzamenti
non erano così devastati o inghiottiti dalle frane come ai giorni
nostri, si stendevano uniformemente su tutta la costa fino ad essere
lambiti dal mare, fornendo un vino di grandissimo valore e pregio,
soprattutto bianco ma anche nero, ricercatissimo su tutti i mercati, in
special modo il “rinforzato”, tipo di vino passito di alta gradazione
alcolica. Il
periodo della vendemmia per il borgo era il momento di massima
animazione; frotte di persone affollavano in una lunga teoria mobile la
scalinata che conduce al mare, molti salivano con una grossa cesta
(corba) in spalla, ricolma di uva appena vendemmiata, altri scendevano
dopo aver scaricato l’uva nelle cantine in paese. Chi scendeva con la
cesta vuota cedeva sempre il passo mettendosi ad un lato della
scalinata, salutando; in più aveva sempre una parola di incoraggiamento
e sprone per chi procedesse per l’erta china curvo sotto il peso del
carico, questa usanza è ancora in voga ai giorni nostri. Ai tempi gli
uomini solevano portare in spalla le particolari e caratteristiche
ceste “da carbonini” (coffe), cioè grossi contenitori sempre realizzati
con scorze di castagno intrecciate, di forma tronco piramidale,
sormontate da 4 maniglie (maneghi) per la presa, tali grosse ceste
venivano usate anche nel porto di La Spezia per essere riempite di
carbone, che a spalla veniva scaricato a terra dalle navi a vapore che
attraccavano nel nostro golfo. I portatori d’uva potevano essere i
contadini stessi o persone provenienti dal porto mercantile o altri,
ossia gente con fisici temprati dalla fatica, che il tipo di esercizio
richiedeva: non è cosa agevole portare in spalla un carico di circa 50
chili, attraverso ripide scalinate e sentieri sconnessi, superando
durante ogni singolo viaggio un dislivello medio totale di circa 300
metri, ammettendo che l’uva venisse caricata quasi a livello mare. Si
consideri che le ceste venivano riempite dal contadino, in genere il
produttore, che nella preparazione del carico, a volte con sottile
furbizia, stivava nella cesta l’uva pressandola con forza aumentandone
così il carico, il portatore interponeva tra cesta e spalla una vecchia
giacca, di solito di fustagno, o un sacco di iuta per ammortizzare gli
effetti degli spigoli della cesta sulle sue carni. Usando così a lungo
ed intensivamente le spalle per portare pesi, si formavano su queste
delle callosità, più pronunciate specialmente nella zona posta
all’attaccatura del collo, ove si notavano dei veri e propri
rigonfiamenti. Nei vigneti la vendemmia era affidata alle donne ed ai
bambini, che sparsi nel terrazzamento tagliavano con forbici o
coltellini ben affilati i grappoli dai tralci di vite, disponendoli in
piccole ceste (corbele o corbelete) o paniere (panéa), quest’ultima
risulta essere un tipo di cesta, da donna, con forma quadrata a sponde
basse con soli due manici, in quanto la grossa cesta era difficoltosa
da manovrare nel campo in mezzo alle varie piante di vigna: stava
posizionata e veniva riempita, con vari travasi, in fondo al campo (a pe' de poso) su un muretto (posa) dal quale il portatore (camallo) la
prelevava per effettuare il viaggio (viaio) procedendo poi verso la
sommità della collina. Portare le ceste così ricolme è un’arte, bisogna
essere avvezzi e usi alla fatica, possedere resistenza fisica, fiato,
grande forza nella schiena e robuste gambe. Ai giorni d’oggi è cambiata
la forma delle ceste (corbe), non sono più così alte: nella parte
terminale sono più allargate, questa particolare forma terminale,
sagomata verso l’esterno, è studiata per la presa con le due mani
durante i viaggi con l’uva stivata, tale aspetto gli conferisce maggiore ergonomicità, inoltre hanno solo due manici che vengono utilizzati
esclusivamente per il sollevamento, ed il conseguente trasferimento
sulle spalle, al massimo carico il loro peso totale di solito non supera
i 40 chilogrammi, ciò a significare che anticamente i vignaioli di
Tramonti erano più forti e grandi faticatori.
Nel procedere verso l’alto
il portatore, per riposarsi, si fermava appoggiando la cesta su un
muretto appositamente costruito (posa), lungo i tragitti ve ne sono
molti. Durante la sosta era solito dialogare con altri simili che come
lui rifiatavano, per riprendere le forze: è infatti problematico parlare
mentre si è in cammino, il fiato è corto ed è meglio serbarlo per lo
sforzo che si sta compiendo. Dopo pochi minuti riprendeva il cammino
fino alla posa successiva, finché non arrivava a destinazione. Per
completare una giornata lavorativa, il camallo doveva compiere il
percorso dal mare per quattro volte, che si traduceva nell’aver
trasportato circa 200 chili di prodotto dai campi alle cantine; a quote
più alte i viaggi dovevano essere più numerosi, solo alcuni uomini di
fibra eccezionale riuscivano a completare 6 viaggi, da basse quote,
nello stesso arco di tempo, per questo venivano ricompensati in maniera
più congrua. In aggiunta alla paga giornaliera, al portatore spettava il
pranzo completo e vino a volontà, almeno un fiasco. I contadini che
vinificavano nelle cantine in basso verso il mare erano certamente
avvantaggiati, il trasporto delle uve era meno laborioso, in quanto i
tragitti da percorrere erano quasi tutti in discesa o con minimi
dislivelli da affrontare. Pure la donna contadina, se giovane ed in
forze, era solita portare le uve dentro alla paniera, che di norma a
pieno carico non pesava più di 20 chili, il peso veniva caricato sulla
testa, disponendo un cercine di iuta (varco) interposto fra la testa e
la cesta. Nel passato solo due donne di eccezionale forza, nella storia
di Campiglia, sono state in grado di salire con corbe portate a spalla,
colme, di grandi dimensioni, come usavano fare gli uomini. Il raccolto
portato nelle cantine, veniva rovesciato dentro a grossi contenitori in
legno di castagno, detti tini, alti anche più di 2 metri, a forma tronco
conica, con la base che di solito era appoggiata su almeno tre grandi
massi disposti con un angolo di 120 gradi tra loro, ben squadrati, di
pietra arenaria. La sommità, fino ad allora lasciata aperta, di diametro
più piccolo della base, veniva chiusa al termine della pigiatura usando
delle assi in legno di forma particolare e sagomate, affiancate tra di
loro in modo da permettere una perfetta chiusura del tino; solo i più
grandi proprietari terrieri li possedevano, di grandi portate, fino a 80
Some (una Soma equivale a 80 litri). Al calar del sole terminata la
vendemmia, ma non la giornata, il contadino si dedicava al lavoro di
cantina (cantineo), procedendo alla pigiatura dell’uva stivata nel tino;
la grande quantità di uva riversata nel tino, di solito lo riempiva
quasi a raso, era schiacciata in modo completo ed efficace con un metodo
che oggi ci fa sorridere: si denudava rimanendo in mutande o indossava
un paio di calzoncini corti, saliva quindi sulla sommità del tino ed in
posizione eretta sull’uva vendemmiata, iniziava a camminare sulla
stessa. A causa del suo peso e del movimento alternativo delle gambe,
poco alla volta affondava in quel misto di grappoli ed acini che mano a
mano diventavano una poltiglia: marciava così imperterrito per ore,
affondando sempre di più nell’elemento che lo avvolgeva e che ne
aumentava lo sforzo fisico. A seconda della profondità del contenitore e
dell’uva immessa, si poteva verificare la situazione che a pigiatura
terminata il mosto lo ricoprisse fino alla gola; per accelerare la
pigiatura, non era infrequente che più di un viticoltore si calasse
dentro il tino, operando in maniera analoga. Terminata questa fase si
procedeva al posizionamento della copertura, lasciando un orifizio
necessario per lo sfiato dei gas di bollitura del mosto. Chi produceva
vino in quantità minore, era solito possedere dei fusti, chiamate botti,
disposte sdraiate, di forma affusolata, chiuse alle due estremità, che
presentavano un’apertura di dimensioni modeste sulla parte più alta, al
centro, in cui il mosto schiacciato con i piedi in altri e diversi
contenitori (tinei), veniva rovesciato all’interno: una volta piena la
botte si attendeva che anche in questo caso terminasse la bollitura.
Gli antichi campigliesi vinificavano con una tecnica particolare,
assolutamente naturale, rimasta immutata nei secoli, fino ai giorni
nostri. Qualche piccola modifica è stata apportata, ma sostanzialmente
il principio è rimasto lo stesso, metodi e tempi sono stati mantenuti.
Al giorno d’oggi in Francia, paese con zone notoriamente dedite alla
coltivazione della vite, alcuni produttori hanno ripreso le naturali ed
antiche tecniche per vinificare, producendo modeste quantità di vino
mettendo in pratica i metodi antichissimi. Da ciò ne è scaturito un
prodotto di nicchia, ricercatissimo da intenditori e degustatori: è
ovvio che il prezzo finale risulti adeguato, di alta fascia. Provate a
chiedere oggi ad un enologo, le metodologie per vinificare, le
attrezzature e gli ingredienti che vengono usati nelle supertecnologiche
attuali cantine diventate simili a moderni ed asettici laboratori
chimici. Il contadino campigliese terminata la pigiatura, allora
rigorosamente con i piedi (oggi per lo scopo si usano macchine, sia
manuali che motorizzate), riversava il mosto nelle botti con
l’inclusione delle bucce ed il raspo, dato che questo particolare metodo
non contemplava la diraspatura; con questa tecnica il vino si schiariva
più velocemente ed in maniera naturale. La bollitura solitamente si
prolungava per una decina di giorni: per intenderci la vera e
prorompente bollitura era quella in grado di espellere il tappo.
Terminato questo fenomeno fisico-chimico, i vasi o fusti, così
comunemente detti tini e botti, venivano quindi sigillati con tappi di
sughero in modo da non fare entrare aria all’interno. In precedenza,
tutte le varie piccole fessure che le botti in legno potevano
presentare, erano state rese stagne con spalmature a forza, di grasso di
bue (sevo), preventivamente pestato con cura e mescolato con una piccola
quantità di polvere di zolfo, per renderlo più morbido e plasmabile. Lo
zolfo serviva solamente per rendere il grasso di animale meno appetibile
per i piccoli topi (ratti) che solitamente giravano per le cantine. Tale
pratica trova impiego anche ai giorni nostri. I fusti rimanevano così
sigillati: questa particolare tecnica viene indicata come metodo “a
botte chiusa”. Si proseguiva così fino a novembre ed esattamente al
giorno 11, ove cade la ricorrenza di San Martino (Fin San Martin,
leva e
meta er vin). Da quel giorno, con il sopraggiungere della luna vecchia
(luna vecia), si poteva procedere a travasare (mudae) il vino. Il
travaso veniva effettuato in botti di legno più piccole o damigiane, in
tali contenitori preventivamente preparati, veniva bruciato dello zolfo
che partendo da quello in polvere acquistato in negozio, veniva fuso dal
calore, posto in una pentola sul fuoco, con lo scopo finale di
conservare nel tempo il vino. A questo punto venivano tagliate delle
strisce di carta, lunghe 50 centimetri, di una particolare carta dei
tempi (papeo matto), grezza, porosa, molto robusta. Ad una ad una le
strisce di carta venivano immerse nello zolfo (sorfe) liquido, si
impregnavano a fondo, dopodiché la carta così modificata (trappa de sorfe) veniva arrotolata su se stessa, e le veniva dato fuoco con un
fiammifero (furminante o bricheto) tenendola legata ed appesa ad un
pezzo di filo di ferro (filon). Veniva allo scopo introdotta nella
botte, che era poi sigillata con un tappo di sughero, e lì lasciata
bruciare a lungo in modo da saturarne l’ambiente. La stessa prassi
veniva adottata con le damigiane (ramisane), contenitori in vetro da
circa 54 litri di capienza, rivestite con vimini intrecciati (vesta).
Pratica comune suggeriva di immettere prima nella damigiana qualche
litro di vino, a scopo precauzionale, poiché durante la combustione
poteva cadere sul fondo di vetro qualche goccia di zolfo incandescente
che avrebbe potuto causare la rottura del contenitore. Alle damigiane
riempite di vino, ad una ad una, veniva posto alla sommità dell’olio,
per evitare ossidazioni.
Riempite
le botti o caratelli (caratei), le stesse venivano nuovamente sigillate
con tappi di sughero. Il raspo (rappo) e quel che rimaneva delle bucce,
dopo la totale spillatura del nuovo vino, veniva immesso in un torchio
di costruzione artigianale dotato di pesante base in arenaria, madrevite
verticale a volte in legno, più spesso in acciaio. L’accurata
torchiatura che ne seguiva dava origine ad un prodotto che prende il
nome di strizzo (strensaia), di qualità leggermente inferiore al vino
spillato in precedenza. I produttori più poveri, recuperavano il
prodotto solido della torchiatura, e lo rimettevano dentro ad una botte
aggiungendo una proporzionale quantità di acqua. Mettevano nuovamente il
tappo alla botte e lasciavano bollire il tutto. Dopo qualche tempo
spillavano, ottenendo un vino molto leggero (vinetta), che veniva bevuto
in famiglia, mentre quello di qualità migliore era posto sul mercato.
Anche i produttori più ricchi usavano produrre questo tipo di vino a più
bassa gradazione, procedevano però in maniera diversa: invece di
torchiare il raspo, lo immettevano direttamente nella botte con aggiunta
di acqua, spillando poi un prodotto che risultava superiore a quello
ottenuto dal precedente metodo. Il vino uscito dalla spillatura dei
tini, veniva chiamato “di botte” (vin de bote), con una gradazione
alcolica oscillante dagli 11 ai 13 gradi a seconda delle annate. Questa
qualità di vino era molto richiesta sul mercato, ma ancor di più i
clienti desideravano il vino eccelso, e cioè il rinforzato che veniva
prodotto sia bianco che nero. Il rinforzato (comunemente detto
Sciacchetrà nella zona delle 5 Terre, area omogenea a quella di
Tramonti, e con tale denominazione internazionalmente conosciuto) deriva
da uve particolari, la maggiore scelta ricadeva su quella cosiddetta
Bosco e sulla Trebbiana Nostrale che una volta vendemmiate, venivano
lasciate essiccare al sole per almeno due settimane. Le uve erano ben
stese sui tetti dei casotti o in alternativa sui muretti a piede del
poggio, in caso di minaccia di pioggia venivano ricoverate all’interno
dei casotti e poste sullo stredo. Con tale procedimento l’uva perdeva
molta della parte acquosa a vantaggio di quella zuccherina, che poi si
trasformava in alcool, quindi i grappoli venivano sgranati a mano,
gli acini pigiati con i piedi ed il mosto travasato nelle botti di
ridotte dimensioni data la limitata quantità prodotta. I più grandi
vignaioli erano soliti produrne da 200 a 400 litri all’anno. I mesi da
luglio a settembre, per il contadino erano periodi che non richiedevano
tempi e cure particolari per le coltivazioni della vigna, per cui egli
si dedicava a diverse altre attività, con lo scopo finale di integrare i
propri guadagni. Prima di tutto, se era buon produttore di vino, lo
vendeva a commercianti che provvedevano a ritirare il prezioso liquido
trasportandolo via mare, dato che a quei tempi il paese non era ancora
servito da strada carrozzabile. Tali commercianti affidavano il
trasporto a barconi in legno (vinaccei) armati a vela che con mare calmo
accostavano alla marina, purtroppo sfornita di attracchi adeguati. Il
carico del vino veniva eseguito, tra notevoli difficoltà con barili (baisei),
tipi di botticelle in legno contenenti il vino con un peso totale di 40
chili, trasportati a spalla dalle cantine attraverso ripide scalinate e
sentieri. Accanto alla coltivazione della vite, seppur in misura minore,
veniva condotta anche quella dell’olivo (oivo). In paese esistevano tre
frantoi oleari, molto artigianali, a cui i contadini portavano il
raccolto. Frangere significa letteralmente rompere, in questa fase la
polpa ed i noccioli delle olive vengono lacerati a fondo attraverso
l’energico trattamento eseguito con la macina. Le macine (masene) per
frantumare le olive (oive) erano di forma cilindrica in pietra arenaria
locale scalpellinata, con foro centrale a sezione quadra in cui venivano
calettati gli assi, costruiti con legno di leccio (lissa) o di castagno.
Anche la base era in pietra arenaria di forma circolare: per evitare la
fuoriuscita della poltiglia, veniva creato tutt’attorno, un bordo
rialzato, formato da pietre in arenaria sagomate a forma trapezoidale
posizionate a coronamento, incastrate le une con le altre. Il prodotto
così ottenuto veniva poi trasferito in un torchio formato da una base in
arenaria, sempre di forma piana e circolare, con scanalatura a
bassofondo, rialzata dal suolo per mezzo di blocchi del solito
materiale, e da un asse verticale in legno, di solito di leccio o di
olivo, calettato sul foro centrale della base, con la struttura a vite,
con profilo triangolare, scolpita a mano.
Tramite
un accoppiamento meccanico mobile con madrevite, sempre realizzata con
gli stessi materiali e costruita in due pezzi componibili a guscio, si
effettuava la pressatura della poltiglia, traendone l’olio (eio): le
operazioni erano eseguite con la sola forza delle braccia. Solo agli
inizi del ‘900 le parti in legno furono sostituite da metallo, più
resistente e durevole. Tutto il versante a mare, Tramonti, è
ricchissimo di pietra arenaria, composto molto duro e resistente
all’abrasione e di grande stabilità nel tempo, anche alle basse
temperature. Molte città dell’Italia e della Francia, la utilizzavano
per lastricare le strade ed i marciapiedi, era quindi molto richiesta
sul mercato, ed in special modo grazie alla buona qualità, quella dei
territori di Campiglia e di Biassa, ove erano state aperte molte cave da
cui si traevano grandi quantità di pietra. Il contadino campigliese,
sempre nel periodo estivo sopraddetto, si dedicava alla modellazione di
blocchi della pietra (tacchi), usando con sapienza semplici attrezzi:
per spaccare i grossi massi particolari cunei (punciotti), per modellare
i manufatti passava quindi all’uso di scalpello sagomato a taglio (scarpeo)
o a punta (agoccia). La pietra veniva tratta principalmente da una
grande cava naturale in forte pendenza, zona Fosso del Checco, che
partiva da quota molto alta e con forte acclività proseguiva fin sulla
spiaggia. Il contadino, dall’alto selezionava i massi più utili e adatti
per ricavare il prodotto finito; non essendoci nessun mezzo di trasporto
per trasferirli alla marina, li faceva rotolare, facendoli franare lungo
quella grande scarpata. Al termine del lavoro di squadratura uscivano
dei blocchi del peso di circa quaranta chili, che venivano preparati in
gran numero, accumulati sulla spiaggia in attesa del veliero, con vela
latina, che li avrebbe caricati e quindi trasportati altrove. Quella
grande catasta posta sulla battigia, in gergo prendeva il nome “a barcà”,
costituiva l’intero carico per il veliero. E’ storia vera che prima
dell’inizio dello scorso secolo, un contadino con il proprio figlio,
appena ventenne, avessero preparato un carico di massi già squadrati e
pronti all’imbarco; un giorno d’autunno, si alzò un forte vento che
divenne talmente impetuoso che ancora oggi si ricorda che fece
rintoccare le campane del campanile del paese, il mare cominciò ad
ingrossare divenendo burrascoso, onde sempre crescenti si abbattevano
sulla costa e sui massi, pazientemente lì accatastati: dalla sua
abitazione che si affacciava sulla spiaggia, il padre vedeva le onde che
minacciavano di portare via o di sparpagliare i blocchi già pronti, a
causa della forte risacca provocata dai cavalloni, trascinandoli al
largo ove era poi impossibile recuperarli dato l’alto fondale. I due si
precipitarono sulla spiaggia con l’intento di mettere in salvo il loro
lavoro, purtroppo un’onda più alta delle altre ghermì il figliolo,
trascinandolo sott’acqua, sbattendolo con violenza contro i massi. Il
corpo del poveretto non fu mai più ritrovato, l’unico resto poi
recuperato fu uno scarpone a lui appartenuto. Avendo imparato già
dall’età infantile la tecnica di spaccare i sassi, un certo numero di
campigliesi, emigrarono in Francia allettati dal guadagno certo derivato
dal lavoro in quel particolare settore, che al di là delle Alpi era
molto ricercato, chiamando in seguito parenti e paesani; ne seguì un
piccolo esodo verso quei luoghi, nella zona della Provenza e
precisamente a La Ciotat, nei pressi della città di Marsiglia, ove i
Canese e gli Sturlese fondarono una piccola comunità tutt’ora esistente.
Qualcuno tentò di far fortuna, o perlomeno di uscire da quella vita
fatta di duro lavoro e non sufficientemente remunerativa per tutti,
imbarcandosi come mozzo su navi mercantili, altri più esperti e
professionalmente più preparati, intrapresero la via del mare
sottoponendosi alle selezioni per navigare su transatlantici in qualità
di personale addetto ai servizi: cameriere o ragazzo di camera. Alle
prime armi con le lingue estere, furono destinati su navi che facevano
tragitti verso il Sud America, data la somiglianza della lingua italiana
con quella spagnola: uno di loro, tale Sturlese, si stabilì a Valparaiso,
in Cile, dopo averlo interamente attraversato; non si hanno notizie di
paesani che navigarono con transatlantici o vapori su rotte del Nord
America. Solcando i mari a quelle latitudini, si narra che uno di loro,
al ritorno da un viaggio, portò con sé alcune piante di sughero che mise
a dimora nella costa sovrastante la zona di Schiara. Agli inizi del 1900
un paesano, della stirpe dei Canese, emigrò in Sudamerica e precisamente
nel Paraguay, ove ancora oggi esiste una piccola comunità di suoi
discendenti assommante ad 80 anime, che portano quel cognome. Nel
dopoguerra (anni ’50), dopo decine di anni di lavoro in Francia, qualche
campigliese, pochissimi in verità, tornò al paese natìo, per godersi la
meritata pensione, portando con sé una curiosa parlata (patois) fatta di
francesismi, frammisti al nostro dialetto, che non aveva di certo
dimenticato. Il compito del vignaiolo coinvolgeva anche altre discipline
lavorative: per costruire i filari, che sostengono la vite, si usano
pali di legno di castagno (forchete), per le proprietà intrinseche di
durata nel tempo che questo legno presenta.
Canese Lola alla Fontana di Napoleone (Loc. Nozzano)
Era quindi necessario che il
contadino proprietario di boschi, tagliasse nel periodo opportuno
giovani piante che gli servivano allo scopo. Le stesse venivano poi
sapientemente trattate, per allungarne la durata, prima dell’utilizzo
finale. Questa attività di taglio, sempre esercitata a mano, lo
trasformava quindi in boscaiolo esperto di legni e periodi di
abbattimento degli alberi, trattamento di questi e stagionatura:
naturalmente la legna, meno nobile del castagno, veniva tagliata per
essere poi bruciata nei caminetti domestici oppure preparata in cataste
per eventuale vendita ad altri. Con gli alberi di castagno più grossi
venivano realizzati travi per solai e particolari pezzi sagomati
(doghe) usati per costruire le botti. Costruire le botti di qualsiasi
forma e dimensione, sempre rigorosamente a mano, è un’arte sopraffina. A Campiglia vi era un maestro (maistro) capostipite, famoso in tutta
l’area di Tramonti che ha allevato sul campo il figlio, che a sua volta
ha tramandato il mestiere al proprio figlio, creando una catena di
artigiani del settore, perpetuatasi per tre generazioni. Il bottaio con
i suoi ferri del mestiere necessari girava, da primavera al periodo di
vendemmia, per tutte le cantine: i clienti gli fornivano doghe ed i vari
cerchi di acciaio adatti per realizzare i fusti delle dimensioni
richieste. Egli, partendo dalle doghe in castagno, appena sbozzate, con
la sua straordinaria manualità costruiva direttamente dentro le cantine
le varie botti e tini anche di grosse dimensioni, capaci di contenere
diverse migliaia di litri di vino. Riesce difficile oggi pensare che il
bottaio di Campiglia, con pochissimi, ma essenziali attrezzi, riuscisse
a realizzare botti al di fuori del suo comodo ed attrezzato laboratorio
di falegname. Egli si trasferiva a piedi, con la cassa contenente gli
arnesi che in sostanza consistevano in: pialla (ciona), pialletto (cioneto),
pialletto mezzotondo (barcheta), sponderuola (spondaea), vari scalpelli
(scarpei), anche di sagoma mezza tonda (ungeta), ascia da carpentiere
(sgorbia), mazzuoli (massei) di legno, graffietto per tracciare (truschin).
In paese non esisteva un acquedotto per l’acqua potabile, non esistevano
i servizi igienici all’interno dell' abitazione, normalmente negli orti
vicino alla casa venivano costruite delle cabine realizzate con tavole
di legno o paglia (stuppio, così era chiamato il gambo del grano),
provviste di copertura per la pioggia. Tali manufatti servivano per i
bisogni corporali. Le famiglie più agiate potevano contare, installato
nella camera da letto, in un piccolo mobile (grindon) che conteneva un
vaso di terracotta smaltata, usato per lo scopo. Veniva poi
successivamente svuotato. Non tutti i fabbricati erano dotati di
cisterna (susterna) grosso manufatto a tenuta stagna, per la raccolta
dell’acqua piovana dal tetto, che si utilizzava anche per le faccende
domestiche. Per lavare i panni sporchi molte donne si recavano,
soprattutto d’inverno, nei boschi vicini all’abitato, ove si formavano
dei piccoli rigagnoli o ristagni d’acqua, a causa delle piogge,
risparmiando così l’acqua delle cisterne. Se la piovosità era scarsa e
la famiglia numerosa, l’acqua nella bella stagione poteva non bastare e
quindi le donne di famiglia per lavare panni e lenzuola dovevano recarsi
laggiù al mare (maìna), nella località Persico, ove sgorgava copiosa una
sorgente d’acqua dolce. Al mattino presto caricati tutti i panni (drapi) da
lavare in una grossa cesta, bambini al seguito, scendeva fin laggiù
sulla spiaggia e procedeva al lavaggio delle lenzuola (bugà), che
venivano poi stese sulle rocce ad asciugare al sole. Per il bucato
veniva usata la cenere. Se i bambini non erano ancora in grado di
nuotare o di galleggiare, la madre provvedeva a legarli con una corda
sotto le ascelle e li calava in mare, tenendo in mano l’altro capo della
fune; il bimbo o la bimba cominciavano così a prendere familiarità con
l’elemento ed in caso di pericolo venivano subito tirati a riva. Con
questo metodo molti hanno imparato a stare a galla, a familiarizzare con
l’acqua, divenendo in seguito dei provetti nuotatori ed apneisti come
normalmente tutti i campigliesi sono sempre stati. Passata la prima
paura, i bimbi dovevano imparare a nuotare, era un vero divertimento e
una sfida: per loro il modo di dimostrare a sé stessi e agli altri, che
avevano imparato bene, era quello di arrivare a sedersi su uno scoglio,
non molto distante da riva, ove il fondale tocca i 2 metri. Tale
scoglio è chiamato, data la sua forma affiorante sull’acqua, Scoglio
dell’Asino (Scoio dell’Ase): chi avesse cavalcato quell’Asino
sicuramente non era alle prime armi: vi sono inoltre nella zona del
Persico e del Navone altri grossi scogli di forme diverse, e tutti hanno
il loro nome o nomignolo, derivante dalla loro sagoma, appioppato dai
campigliesi da lustri. Il contadino era anche molto esperto nell’arte
della pesca, nei momenti di lavoro nell’area della marina, integrava il
tempo dedicato allo spaccare i sassi, con la pesca soprattutto al polpo,
molto comune in quelle zone. Anche le contadine erano solite pescare i
polpi (porpi) con una tecnica curiosa. Dato il gran numero di esemplari
presenti alla marina, era sufficiente che la donna si sedesse su uno
scoglio e lasciasse le sue gambe immerse nell’acqua. A causa del bianco
colore delle gambe i polpi erano attratti e si attorcigliavano a queste
ritenendo che fossero una preda. Con estrema velocità le contadine, con
le mani afferravano i polpi catturandoli. Il campigliese usava tecnica
diversa: in riva al mare, lungo la spiaggia (ciasa) costituita da grossa
ghiaia (giaon), preparava una specie di vasca (bozo) delimitata con
sassi, in cui immetteva del cibo appetibile (brumeso) per il polpo:
l’attesa non era vana, di solito dopo poco si presentava una preda,
anche di grosse dimensioni. Così il campigliese, pronto e attento con la
sua fiocina (fussena), la scagliava con velocità e precisione catturando
il mollusco, e così di seguito: se aveva fortuna si poteva verificare
che il polpo che sopraggiungeva, fosse seguito da una murena, che
notoriamente gli dà la caccia ed è ghiotta delle sue carni. Egli, con la
sua perizia, poteva così catturare facilmente due prede in una sola
volta.
I campigliesi per esprimersi tra
loro, comunemente usavano il dialetto, tipo di linguaggio molto simile a
quello spezzino, nonostante i parecchi vocaboli che differivano da
quello del capoluogo, però si intendevano a meraviglia. Il dialetto
campigliese differiva, non sostanzialmente, da quello in uso nella
vicina Biassa, che “musicalmente” si presenta all’orecchio
dell’ascoltatore molto “cantilenante” e con diversa accentatura e
pronuncia delle consonanti; differenza infine più marcata con il
linguaggio vernacolare parlato nella confinante Portovenere. Alcuni
termini o espressioni dialettali campigliesi riflettono espressioni od
assonanze comunemente usate in Francia, Spagna, ecc, segno evidente del
travaso nei tempi. Nella comune parlata dialettale i paesani
rivolgendosi alle persone anziane, usavano il “Voi”, in segno di
deferenza; stesso trattamento per le persone sconosciute: per le ultime,
al contrario, se il paesano si fosse trovato al di fuori del territorio
di Campiglia, il dialogo si svolgeva in italiano. I figli usavano dare
del Voi ai genitori, dove il padre (pae) e madre (mae)
venivano rispettivamente chiamati pà e mà, anche durante
il dialogo con loro, così, semplicemente, senza usare nomi di battesimo.
E’ da rimarcare una particolarità: nella conversazione con forestieri (foestri),
cioè sconosciuti, che casualmente incontravano intorno a Campiglia, in caso di dialogo, prima di eventuali presentazioni,
abitualmente si rivolgevano loro con l’appellativo di “o bel’omo”,
“ o bela dona”, in funzione che si trattasse di uomo o di donna,
perlomeno di mezza età. Una volta perfezionata la conoscenza si passava
automaticamente al Voi, dialogando in dialetto o in italiano, atteso che
gli interlocutori avessero o meno familiarità con il vernacolo
campigliese.
DA ANTICHI
DOCUMENTI
Un campigliese facente parte di una delle tante
famiglie Sturlese, ci ha fornito un interessante documento storico,
appartenente ad uno dei suoi antenati: Giobatta Sturlese. Il cartaceo
rappresenta come negli anni '800 alcuni istituti scolastici
premiassero con particolari citazioni gli allievi che frequentavano le
scuole del tempo.
I documenti che seguono sono riferiti, in
particolare, al "PUBBLICO GINNASIO " di Sarzana, anno scolastico
1864-1865.
Noterete un errore di stampa che riporta erroneamente
l'anno 1684, anzichè il 1864...
Per i non campigliesi: i vari cognomi degli allievi
che seguiranno, con l'indicazione della provenienza geografica, sarà
interessante ricercare se tra i citati possano trovare dei loro antenati
o di eventuali persone di stirpi conosciute.