LA
MIA VITA CON GASPARE
Di Iolanda
Sturlese
Autunno 1986
Sfogliando
un vecchio album di fotografie che rievocano tanti cari ricordi di vita,
vissuta con mio marito, deceduto lo scorso anno all’età di 89 anni; sento il
bisogno di ricordarlo affettuosamente, e parlare di lui. Qualche immagine lo
mostra in abiti militari, intento allo svolgimento del lavoro sulle varie
navi, presso le quali era in forza. Altre in abiti borghesi mentre tiene per
mano le nostre due bimbe, e altre in costume da bagno con figliole, e con me
sulle spiagge di Tripoli, di Gaeta e di La Spezia. Un album particolare
tenuto da Gaspare con tanta cura, raccoglie le foto che lo ritraggono a
Massaua al fianco di soldati dalla pelle nera, suoi dipendenti. Anche la
ferrovia Asmara – Massaua, è un capolavoro importante costruito
intelligentemente da ingegneri italiani che Gaspare ammirava, e volle
testimoniare con bellissime immagini fotografiche. La linea ferroviaria fra
le due città è costruita su alture che si trovano a 2000 metri sul livello
del mare. Molte fotografie delle navi italiane e cacciatorpediniere, sulle
quali Gaspare, aveva navigato, lavorato, combattuto, durante lo svolgersi di
quattro guerre. La prima Guerra Mondiale 1915-1918. La Guerra di Spagna
1926. La Guerra di Abissinia 1937-1938. La seconda Guerra Mondiale
1940-1945. A tutte egli aveva preso parte attiva, ottenendo anche elogi e
riconoscimenti, comprese medaglie al valor militare. Per due volte decorato
cavaliere. Cavaliere della corona d’Italia, e Cavaliere di Vittorio Veneto.
Come moglie di Gaspare, posso asserire di essermi realizzata felicemente e
completamente in tutte quelle gioie, e soddisfazioni che una donna desidera
dalla vita. Fanno testimonianza delle sue grandi qualità di uomo, i
documenti che la Marina Militare gli consegnò, al momento del congedo
assoluto unitamente al foglio matricolare, dai quali si legge:
Rapporto
informativo
Sott’ordine
al capo servizio Genio Navale del Comando Superiore delle Siluranti,
particolarmente destinato a dirigere le squadre lavori, che eseguono
riparazioni alle unità dipendenti. Lodevolmente
Giudizio
Complessivo
Ufficiale del
(C.R.E.M.) che per eccezionali qualità di carattere militare e professionali
riesce ad essere di particolare rendimento, molto zelante nel disimpegno
degli incarichi a lui affidati. Ha sempre svolto con intelligenza e senso
pratico, malgrado le difficoltà contingenti relative a mezzi materiali.
Ottimo collaboratore, sereno, cura molto i propri dipendenti dai quali è
molto benvoluto. Per il complesso delle sue qualità e per il suo rendimento
al lavoro, lo si ritiene idoneo al grado superiore; e meritevole di
particolare considerazione.
OTTIMO
Qualità
militari e professionali
Ha molta
ascendenza sui dipendenti. Molto stimato dai superiori e inferiori. Dotato
di molto amore alla professione, spirito di iniziativa.
Qualità
Morali
Dotato di
alto senso del Dovere, Dignità personale, e costanza nell’applicazione.
Qualità
intellettuali
Intelligenza
pronta. Molto buon senso, e prontezza di giudizio
Qualità
fisiche
OTTIME
Collegato al
congedo ed al suo foglio matricolare, gli fu consegnato un foglio contenente
un elogio dell’allora Regia Marina Militare in data 14 Novembre 1943, che
riporto integralmente:
Regia Marina
– Ministero della Marina. Ufficio dei servizi militari di Taranto.
Argomento:
ELOGIO –
Al tenente Gaspare Garavaglia. Dalla relazione in merito alla collisione
della Torpediniera Cosenz, avvenuta il 25 Settembre c.a. ed al combattimento
con aerei nemici, che ha avuto luogo il giorno successivo, ho rilevato il
vostro ottimo comportamento, lo spirito aggressivo e l’attaccamento al
dovere che avete dimostrato in quella circostanza. Vi rivolgo pertanto un
vivo elogio .
Il Ministro
della Marina
B. Cornedani
Nell’occasione dell’80° compleanno di Gaspare ricevemmo da Roma dal
Ministero della Difesa, il seguente biglietto di auguri:
Caro
Garavaglia, in occasione del Suo ottantesimo compleanno, che ricorrerà il 4
Marzo 1976, a nome della Marina mi è gradito porgerLe fervidi voti augurali.
Noi la ricordiamo sempre con animo grato come pure l’opera da Lei svolta per
il bene, e le migliori fortune della Marina. Cordiali saluti
Torrisi
Ammiraglio di
divisione Giovanni Torrisi. Roma 18/2/1976.
CAPITOLO 1°
Gaspare era
nato a Fara, un paese della provincia di Novara, dove la distesa delle
risaie termina e lascia spazio alle colline coltivate a vigneti. Il paese è
quasi agricolo e solcato da un grosso corso d’acqua di nome “Mora”. Questo
nome gli venne dato, perchè il suddetto canalone, fu ideato e fatto
costruire da Ludovico il Moro, quando era Duca di Milano, circa nella metà
del 1400. Per Fara la Mara rappresentava il lavatoio pubblico, ove le donne
sprezzanti il freddo invernale ed il calore estivo si recavano a lavare il
bucato. Con le acque della Mora si annaffiavano le campagne, e si
abbeveravano le mucche ed i cavalli; animali usati in quei tempi lontani,
grandi aiutanti dell’uomo: in configurazione da “tiro” e da “soma”. Anche le
mucche venivano munite di giogo, ed eccettuati i mesi della loro gestazione
collaboravano ai duri lavori dei campi. La bellissima chiesa, con le
reliquie di S. Damiano, è al centro del paese, e i parrocchiani hanno per
essa tanta cura per renderla sempre più degna del Santo. Festeggiano
solennemente il Santo protettore del loro paese, nel Luglio di ogni anno,
portando la statua in processione. Creano in quell’occasione luminarie in
ogni angolo di strada, e le donne fanno a gara nel disporre ai balconi
delle loro case le coperte più belle e (da vedere). Preparano in questa
ricorrenza persino fontane artificiali, e vengono impegnate anche bande
musicali, che si trasferiscono da Novara, dietro congruo pagamento in
denaro. I devoti del Santo, si riuniscono sotto il porticato della chiesa,
nel sagrato, per partecipare alle offerte. Sfidano il freddo, a volte
intenso, poiché questa seconda cerimonia avviene in febbraio e si protrae
anche un’intera giornata. Le offerte sono spontanee, e consistono in uve
conservate gelosamente per vari mesi, in pollame, salumi e vini prelibati
del posto. Ogni cosa viene poi venduta all’asta ai parrocchiani, che fanno a
gara per offrire cifre sempre più elevate. Col ricavato vengono poi eseguiti
lavori di restauro alla chiesa ed acquistati oggetti per arredare l’ambiente
sacro, come tendami damascati, per impreziosire il luogo di culto, nella
ricorrenza del Santo Natale di ogni anno. Con questa formula di
autofinanziamento, è stato acquistato l’organo, e rinnovato l’altar maggiore
con marmi pregiati di varie colorazioni. Fara è raggiungibile con il treno,
e la locale stazione ferroviaria è tenuta in grande considerazione. Lo
dimostrano le belle statuette in cemento di cui è ornata, e dall’abbondante
fioritura estiva di dalie, gigli, zinnie con contorno di siepe di roselline
in primavera, e di biancospino profumato. Il paese dispone di due banche per
custodire il denaro abbastanza considerevole guadagnato da questi
instancabili lavoratori della terra. Le scuole elementari sono in un ampio e
decoroso palazzo. Funzionano alberghi, ristoranti, e molti altri negozi per
rispondere ai bisogni degli abitanti e dei commercianti che devono
pernottare durante il viaggio di lavoro. I ragazzi che frequentano le scuole
medie si recano a Novara per mezzo del treno, che a ore mattutine e serali
transita da Fara, per procedere fino a Varallo Sesia, punto terminale della
linea ferrata. Lo spostamento da Fara a Novara, ora naturalmente è
migliorato poiché ogni famiglia possiede un’automobile, o una motocicletta,
esistono pure linee di autobus: i tempi sono cambiati in meglio. Oggi i
commercianti viaggiano con grandi automezzi, e non devono più pernottare per
rifocillarsi; né per fare riposare i cavalli. Il progresso ha dato i suoi
frutti. Quando Gaspare era bambino, all’inizio del secolo, la vita era meno
comoda di oggi, ed egli per frequentare le scuole medie (allora denominate
scuole tecniche) doveva servirsi del treno. Sapeva anche usare con perizia
la bicicletta, ma gli inverni in quella località attorniata da rilevi
alpini, erano freddi, e le strade coperte di neve per vari mesi dell’anno.
Gaspare era un bambino intelligente, come veniva giudicato dai suoi
insegnanti. Sveglio e molto attento alle lezioni scolastiche, ma fuori della
scuola giocherellava sempre alla ricerca dei nidi. Sapeva arrampicarsi così
come uno scoiattolo sulle alte piante di quercia e di acacia che
costeggiavano la Mora per vari chilometri. In quel corpo tanto irrequieto e
giocherellone, era il seme del germoglio di un cuore, che in tutta la sua
esistenza di uomo e di soldato seppe dare i frutti veri dell’amore per il
suo prossimo, per la famiglia e per la sua Patria. Il padre di Gaspare,
Carlo era impiegato delle ferrovie dello stato, sognava per il figlio un
futuro da capo stazione con il capo coperto dal berretto rosso com’è di
consuetudine, ed in mano la paletta nell’atteggiamento del segnale ai treni,
per l’arrivo e la partenza. Lo sognava però in una stazione più importante
di quella di Fara; in una grande città. Confidava questi suoi sogni alla
moglie Angela, che sorridente e taciturna condivideva le opinioni che il
marito le esponeva. Gaspare però non la pensava allo stesso modo. Quel
cuoricino di scolaretto, che tante volte si era commosso fino alle lacrime,
quando l’insegnante della classe elementare leggeva brani del libro Cuore,
ora stava trasformandosi, e quella tenerezza era divenuta coraggio, voglia
di vivere, di evadere per conoscere nuovi luoghi, nuovi paesi, nuove razze.
I romanzi di Salgari, lo avevano invogliato alla conoscenza dell’esotico. I
viaggi, e il mare lo attiravano. A 14 anni di età, aveva saputo costruirsi
con le sue proprie mani la bicicletta che, usava orgoglioso per compiere
gare ciclistiche con gli amici. Federico, Enrico e Carlo, erano I tre amici
che gareggiavano con Gaspare pedalando con grande impegno sui lunghi viali
che uniscono Fara ad altri paesi distanti alcuni chilometri. Le ragazze
coetanee li incoraggiavano ed al traguardo, e come in ogni adolescente,
anche in esii si pronunciava quel sentimento pulito e naturale dell’amore.
Gaspare era il preferito. La sorella di Carlo, in special modo sapeva
invogliare Gaspare a raggiungere la vittoria, in quei tempi il premio finale
poteva consistere in un gelato o in una scatoletta di caramelle alla
liquirizia. Anche Gaspare sapeva rivolgere a Ernesta lo sguardo pulito e
sorridente, che voleva dire solo simpatia, amore, tenerezza. In quei tempi
l’amore veniva esternato con vero riserbo. L’abbraccio in pubblico sarebbe
stato giudicato peccaminoso.
CAPITOLO 2°
A sedici anni
Gaspare, volle realizzare il sogno che accarezzava da tempo, per andare
incontro a quell’ignoto riservato a tutti i mortali. I genitori ne furono
veramente stupiti, ed anche un po’ dispiaciuti, per il loro sogno infranto
causato dal figlio. Nel 1914 si arruolò nella Regia Marina Militare,
destinato al Dipartimento di La Spezia, e dopo le prime rituali verifiche
dei documenti per l’accettazione, fu vestito con la divisa di semplice
marinaio, e destinato alla scuola militare di Venezia, settore meccanica.
Questa scuola era, ed è tuttora di grande importanza per la preparazione
dei futuri macchinisti che devono imparare a conoscere alla perfezione i
motori delle navi, e tutte le varie parti che le costituiscono. Al termine
di detta scuola, gli allievi devono saper guidare la nave in ogni evento. In
pace, ed in guerra. I programmi della scuola meccanici, non si limitano
esclusivamente alla conoscenza della meccanica, e dei motori, ma comprendono
anche lo studio delle materie letterarie e della matematica. I logaritmi, la
radice quadrata e cubica devono essere risolti ed usati con la massima
sicurezza e sollecitudine, dai futuri uomini di mare. La frequenza alla
scuola meccanici era terminata per Gaspare. Era giunto il momento di poter
mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti. In quell’atmosfera un po’
riscaldata, politicamente, gli eventi precipitarono. Gli italiani sentivano
il bisogno di cacciare gli Austriaci dal Veneto e dalla Costa Dalmata. Gli
interventisti, sobillavano da ogni angolo d’Italia, di unirsi per iniziare
la rivolta, e l’inizio non tardò a giungere. La goccia che fece traboccare
il vaso fu l’uccisione del principe Ferdinando Francesco, e di sua moglie, a
Sarajevo il 26 Giugno 1914, eredi al trono d’Austria. L’Italia faceva parte
della Triplice Alleanza, e firmando tale trattato, si era obbligata a non
dare aiuti alla Serbia, che dall’Austria era mal tollerata. I roventi
trattati dell’Austria con la Russia e la Serbia, la tracotanza della
Germania, le fatiche diplomatiche della Francia e della Gran Bretagna,
servirono a nulla. Venne così dichiarata dall’Italia la Guerra all’Austria.
La Germania dichiarò la Guerra alla Serbia, invase il Belgio, e distrusse
completamente l’esercito Serbo. L’Italia “ufficialmente” avrebbe dovuto
rimanere neutrale, ed invece animata dal sentimento di libertà per il suo
popolo, corse immediatamente in aiuto alla Serbia. La Marina Militare non
tardò ad inviare le sue navi che facevano spola tra Brindisi e Valona, e a
tutta la costa dalmata. Vi furono battaglie durissime, che seppero strappare
le terre italiane, da tanti anni soggiogate dall’Austria. In questa
occasione Gaspare prese imbarco nel cacciatorpediniere “Ardito” e seppe
svolgere da vero italiano il compito affidatogli. La Marina Italiana si
coprì di gloria in parecchie azioni di attacco al nemico. Tutte le forze
armate italiane furono destinate immediatamente, presso i posti di commando
dai quali erano stati cacciati i nemici. A Trento, Trieste, Zara, Pola ed in
una vasta zona della Yugoslavia. La Guerra 1915 – 1918 finì il 4 Novembre
lasciando sui campi di battaglia 600.000 morti (così parlano le
statistiche). L’Italia era libera e poteva finalmente vivere guidata dalle
sue leggi. Assaporava la libertà, che è il dono più bello che l’uomo possa
vantare.
CAPITOLO 3º
La Marina
Militare ebbe destinazioni nelle colonie africane conquistate in precedenza
da gloriosi Comandanti italiani. Gaspare fu destinato ad una colonia Somala:
a Massaua, e vi rimase per cinque anni. La nave che lo aveva portato a
Massaua era la “Regia Nave Alula”. Viveva a bordo della nave Alula, completa
di tutto l’equipaggio. Nel 1925 Gaspare rientrò in Italia destinato
all’Arsenale Militare di La Spezia, presso l’officina militare.
Il suo
compito consisteva nel sorvegliare e controllare ogni pezzo che veniva
costruito da operai civili, specialisti in materia. Motori e pezzi di
ricambio. In quei tempi ormai lontani, la vita era molto disagiata nelle
colonie. L’alimentazione era costituita in prevalenza da cibi conservati,
mancava la verdura e tanti altri cibi, indispensabili per una alimentazione
bilanciata e completa, per la conservazione della buona salute. Altro
fattore nemico della salute, era il clima torrido; caldissimo in piena
estate e in pieno giorno, e freddo umido durante la notte. I giovani, sani e
forti che avevano lasciato l’Italia per la colonia, rientravano in patria
con qualche disturbo. Non si trattava di gravi malattie, ma difficoltà
riferite all’apparato respiratorio, o digestivo. Gaspare, a sua volta, fu
colpito da gastrica, e fortunatamente ben presto si riprese. Fu
indispensabile un’alimentazione adeguata ai suoi succhi gastrici
compromessi. Per questa ragione, dopo essere stato cliente di molti punti di
ristoro della città, divenne cliente del ristorante gestito da mia madre
insieme alle figlie. “Nei ristoranti ove sono stato cliente fino ad oggi,
non mi trovavo”, disse Gaspare, quando entrò per la prima volta nel nostro.
“ Mi servivano dei grandi piatti di pasta asciutta condita con soffritti e
grassi, e mi davano carni rosse ma, indigeste per il mio stomaco. Tutti cibi
di ottimo gusto ed appetitosi, che in passato facevano parte della mia
normale alimentazione, ma ora dovevo rinunciarvi. Il guaio è che, non avendo
qui i miei genitori, non saprei come risolvere il problema della mia
difficile digestione”. Pregò mia madre di preparargli i cibi adatti, per un
sua giusta alimentazione, anche a costo di spendere di più della retta che
veniva praticata agli altri clienti. Mia madre era una donna molto
comprensiva e con il sentimento che solo le madri possiedono, prese a cuore
la necessità che aveva il nuovo cliente. Malgrado il grande lavoro che
richiedeva il ristorante, prese sotto l’ala quel povero ragazzo sofferente.
“Ho anch’io sette figli, disse mia madre, e se un giorno qualcuno di loro
necessitasse urgentemente di essere curato, sarei grata a quella persona che
si prestasse in aiuto” Tanto io che le mie sorelle, lo giudicavamo un
intralcio al lavoro normale, poiché la preparazione dei cibi diversi dai
soliti richiedeva del tempo aggiuntivo. Inoltre ritenevamo che questo nuovo
cliente fosse affetto da tubercolosi polmonare o gastrica infettiva. Lo
servivamo anche con ritardo, con la speranza di poterlo allontanare. Queste
nostre considerazioni, erano in parte giustificate (tantopiù che non eravamo
all’altezza di poter giudicare un malato). La sua magrezza, ed il pallore
cadaverico del viso ci avevano impressionato. In quel periodo infieriva in
ogni angolo d’Italia l’epidemia micidiale chiamata “Spagnola”. Dal 1918 al
1925 questa malattia, consistente in un’infezione alle vie polmonari, aveva
falciato oltre 20.000 persone (così parlavano le statistiche). In quei tempi
non esistevano gli antibiotici e neppure i sulfamidici. Quel male
distruggeva intere famiglie. Fortunatamente la scienza medica riuscì in
seguito a debellare questo morbo pauroso usando le medicine scoperte, ed
anche chirurgicamente, asportando parte del polmone contaminato. Oggi
abbiamo un altro male pauroso che uccide l’uomo: “Il Cancro”. Quando esso si
manifesta, difficilmente può essere definitivamente estirpato, ed il malato
il più delle volte deve soccombere. Fortunatamente Gaspare riuscì ben presto
a riprendersi da quello stato. L’attenzione e l’aiuto nella giusta
alimentazione, e la somministrazione di ricostituenti, gli restituirono la
salute di un tempo. Mia madre fu felicissima di aver contribuito a ridare la
salute e la forza, a quel povero cliente due anni prima ammalato ed
avvilito.
CAPITOLO 4º
Il
regolamento militare permetteva ai graduati di poter alloggiare fuori
dell’Arsenale. Gaspare non aveva alla Spezia nessun parente. I suoi
genitori anziani risiedevano a Fara. Prese alloggio in camera ammobiliata
per trascorrervi la notte. Naturalmente per legge, ogni graduato o marinaio,
era soggetto ad un regolamento, che doveva rispettare. In caso di chiamata
urgente, anche nella notte, dovevano presentarsi immediatamente al commando
marina. I graduati entravano in Arsenale al mattino, e all’ora del pranzo
era loro concessa l’uscita. Rientravano nelle prime ore del pomeriggio ed
all’ora che gli operai sospendevano i lavori anche i graduati potevano
lasciare l’Arsenale. Gaspare aveva allora il grado, o per meglio dire, la
qualifica di capo meccanico di 1ª Classe. I miei genitori, proprietari
terrieri, in una collina dei dintorni di La Spezia, vi gestivano anche un
albergo ristorante. Il nome del paese è Campiglia, ed i terreni sono situati
in zona esposta al mare e coltivati a viti con sistemazione e terrazzo.
Questa luminosa collina, geograficamente, si potrebbe considerare come una
continuazione delle famose Cinque Terre. Dico famose perchè il vino
sopraffino che in esse viene prodotto, fa lustro nelle più belle vetrine
delle aziende vinicole italiane, per il suo grado alcolico elevato e per la
squisitezza del gusto. Papà e mamma erano molto affezionati alla numerosa
famiglia che avevano creata, e si adoperarono molto per dare ad essa un
avvenire sereno, meno faticoso e travagliato di quello che avevano dovuto
affrontare personalmente. “Fra i nostri sette figli, qualcuno potrebbe avere
tendenza a continuare questo tipo di attività”, dicevano.” Creiamo un
secondo ristorante, ma questa volta in città. Sappiamo per esperienza quanto
sia redditizio questo lavoro, da compensare i sacrifici e la fatica
richiesta.” Mio padre rimase a Campiglia con i due figli; maschio e
femmina. Era compito suo la sorveglianza per la lavorazione dei vigneti e
delle persone che lavoravano a giornata alle sue dipendenze. All’andazzo
dell’albergo ristorante pensava la figlia Ines con l’aiuto di una donna di
servizio per i lavori più umili e pesanti.. Mia madre si trasferì a La
Spezia. Irma, la sorella maggiore, diplomata maestra di scuola elementare,
rientrava a La Spezia ogni quindici giorni. Aveva la cattedra di insegnante
a Corniglia, paese delle Cinque Terre. Io frequentavo l’ultimo anno
dell’Istituto Magistrale. Le altre due sorelle erano in età adolescenziale.
Loro aiutavano la mamma nella conduzione del ristorante, caffé, birreria.
Mario, il primogenito della numerosa nidiata, preferì prendere la via del
mare. Conosceva le lingue: inglese, francese, spagnolo. Non profondamente,
ma quel tanto da poter interloquire con con i viaggiatori che si spostavano
dall’Argentina ed andavano in Oriente per realizzare i loro commerci. Era
capo cameriere sui famosi transatlantici di allora. Dico di allora, perchè
in quei tempi non esistevano gli aerei ed i ricchi proprietari dell’America
del Sud e del centro, viaggiavano senza badare a spese sui transatlantici
di lusso. L’ubicazione del ristorante di La Spezia era positivamente
commerciale. Vicino all’entrata dell’Arsenale militare, al palazzo
municipale, alla prefettura, a due banche: alcuni dipendenti di tali
strutture potevano permettersi il pranzo e la cena al ristorante. Un cliente
del nostro ristorante, avvocato di professione, aveva lo studio nella
palazzina attigua. Ottimo cliente che spesso consumava i pasti con altre
persone a lui collegate per ragioni di lavoro. L’avvocato era scapolo,
siciliano, la sua famiglia di origine risiedeva in Sicilia. Spesso
l’avvocato si trovava in difficoltà per la mancanza della segretaria, che
gli era indispensabile. Fra le varie ragazze che avevano svolto, nel suo
studio, il lavoro di impiegate – segretarie, l’ultima assunta, secondo il
professionista era la più apprezzabile e intelligente. Si licenziò dallo
studio legale perchè convolò a nozze. L’avvocato quasi ogni giorno doveva
recarsi in pretura o in corte d’assise, per discutere su processi, che
vedevano coinvolti suoi clienti. La sua assenza dallo studio era quasi
sempre in mattinata. Rientrava a mezzogiorno, o alle 13,30. La segretaria
aveva l’incarico di ricevere i vari clienti, e fissava loro gli appuntamenti
con il professionista. Qualcuno veniva per chiedere consigli su problemi
legali, cui la stessa segretaria avrebbe sputo rispondere. Doveva inoltre
scrivere lettere ai clienti per sollecitare il pagamento di parcelle non
ancora saldate. Suo compito era quello di sapersi destreggiare con la
macchina da scrivere, tenere il registro delle telefonate, con le varie
richieste dei clienti, senza trascurare le date. L’avvocato pregò mia madre
di mandarmi nel suo ufficio, per un breve periodo di tempo, almeno fino al
giorno in cui avesse trovata la nuova impiegata. Tanto più ’’egli disse che
essendo il suo studio vicino al ristorante, no vi sarebbero stati problemi
di tempo per recarvisi. L’avvocato si rammaricava, perchè rimanendo chiuso
lo studio, per mezza giornata, perdeva parte dei clienti. “ La sua figliola
saprebbe svolgere questo lavoro” disse, “ perchè è istruita, e sa anche
usare la macchina da scrivere”. Inutile dire che io fui felicissima di
andare nello studio dell’avvocato, tantopiù che nelle ore in cui non dovevo
badare ai clienti ed al lavoro, potevo dedicarmi alle lezioni scolastiche.
Inoltre essendo la prima volta che facevo l’impiegata, mi sentivo un pò più
importante del solito. Il primo stipendio mensile favoloso fu di lire 40.
Dopo due mesi di ricerche finalmente arrivò la nuova segretaria. L’avvocato
non mancò di elogiarmi, per la precisione che avevo saputo impegnare in quel
lavoro, per me nuovo e potrei dire improvvisato.
CAPITOLO 5 °
Annessa al
salone del ristorante, ove venivano serviti i pasti, vi era una piccola sala
che veniva pure utilizzata da ripostiglio. Appoggiato ad una parete, uno
scaffale ove la mamma teneva i vari rifornimenti di generi alimentari come
pasta, riso, olio di oliva, scatole di pomodori pelati, scatolette di tonno,
e tutta la biancheria necessaria alla gestione del ristorante. L’arredamento
della piccola sala era sobrio, e abbastanza ridotto all’essenziale. Nel
centro un tavolo quadrato di faggio antico, con due capaci tiretti
contenenti libri e registri in uno; nell’altro i miei libri scolastici. La
cartella della sorellina che frequentava la 5ª elementare pendeva da un
chiodo infisso nel muro. Quattro sedie impagliate intorno al tavolo. Dal
centro del soffitto, molto alto, pendeva una lampada a saliscendi, con luce
fortissima che illuminava ogni cosa. La stanza, un po' ripostiglio, e un po'
saletta era il mio ambiente preferito per dedicarmi allo studio, nelle ore
in cui il ristorante era silenzioso. Voglio dire le ore che separavano il
pranzo dalla cena. I clienti del ristorante non entravano nella piccola
sala. Erano clienti di una certa levatura morale e civile, che sapevano
comportarsi con rispetto verso di noi, altrettanto osservanti di tutte le
regole indispensabili per la serena convivenza fra persone civili.
Un pomeriggio
mentre stavo ripassando alcune regole di fisica, che trattavano i primi
elementi dei vasi comunicanti, delle macchine elettriche e dei motori, una
voce gentile chiese se era permesso entrare in quella saletta, così
scrupolosamente riservata alle proprietarie. Chi chiedeva era Gaspare, che
gli altri commensali chiamavano maresciallo. Rimasi un attimo ad osservare
il maresciallo chiedendogli il perchè di questa sua presenza fuori ora.
L’interessato mi disse di scusare la sua intromissione, in quanto nessuno lo
aveva convocato; ma sentendo parlare di quelle macchine tanto perfette, e di
quei motori, così approssimativamente, come facevo io, aveva sentito
istintivamente il dovere di intervenire, spiegando il vero principio di
funzionamento dei dispositivi. “Vede signorina”, mi disse, “lei non spiega
affatto il vero funzionamento, bensì ripete a memoria delle definizioni, che
sono scritte nel testo”. Infatti il maresciallo aveva ragione, ed io imparai
la lezione e lo ringraziai dell’interessamento. Domandai la ragione del suo
arrivo al ristorante ad un orario così insolito. L’ora di cena era ancora
lontana. “Passavo da queste parti, mi rispose, e sono entrato perché avevo
voglia di sorbirmi un caffé e sono entrato. Naturalmente lei studia a voce
alta come facevo io durante il periodo dei corsi. E’ un ottimo metodo per
meglio ricordare. Perciò ho potuto percepire la relazione sui motori e sulle
macchine elettriche. Non ho potuto fare a meno di intromettermi, per
chiarire l’argomento. Quando frequentavo la scuola meccanici a Venezia, uno
degli insegnanti, molto esigente in questo particolare settore, soleva
affermare, a voce alta : Quando uscirete da questa scuola, dovrete essere in
grado di guidare le navi, che hanno i motori, perché sono proprio i motori
che fanno muovere il tutto” Era pronto a punirci, se non avessimo studiato
con impegno. Erano punizioni lievi, come il divieto di libera uscita
serale”. Dopo questo colloquio sui motori, rimasi un po’ stupita, circa
l’interessamento sulla mia cultura, mostrato da un uomo da me conosciuto
qualche mese prima e nelle vesti di cliente, al momento pensai:
"Ma è
proprio la mia cultura, il mio sapere, che interessa a quest’uomo, o è la
mia persona nella sua totalità ? ” Non mi sbagliavo, perchè Gaspare si stava
innamorando di me. Non lo nego, che quel suo primo intervento a scopo
culturale mi fece molto piacere. Anch’io cominciai a sentire verso di lui
quella reciproca simpatia che precede l’innamoramento di due persone di
diverso sesso. Gaspare era fornito di tutti quei requisiti che fanno
emergere, per essere apprezzato. Giovane, di bell’aspetto, alto di statura,
snello nella persona, comportamento disinvolto e signorile; occhi neri,
molto espressivi, carnato chiaro e capelli nerissimi ondulati naturalmente.
Sempre sorridente e gentilissimo. La divisa che indossava completava la sua
personalità. Nell’estate la divisa bianchissima in tela di lino, sempre
impeccabile. Nell’inverno la divisa di panno blu scuro. I suoi abiti erano
sempre ben curati, stirati ed ordinati, tutto ciò contribuiva a qualificarlo
positivamente.
CAPITOLO 6º
Gaspare
giornalmente entrava nella piccola sala del ristorante. Spesso ascoltava la
lezione che la mia sorellina doveva recitare a memoria, il giorno seguente a
scuola. Una volta le disegnò una pianta, che l’insegnante desiderava fosse
fatta alla perfezione. Con la sua assidua frequentazione, Gaspare aveva
preso un po' di confidenza con i miei libri. Gli piaceva consultare i testi
di fisica, matematica e storia. Per la storia, in particolare, aveva molto
interesse. Io ero più attratta dalla letteratura e dalla filosofia. A volte
facevamo animate discussioni per le opposte predilezioni. “Ma questi
problemi filosofici, diceva Gaspare, hanno teorie così strane che ammettono
un pensiero a tutto spiano, poi con due parole parole lo negano perchè non
può essere valido. Che modo di pensare e ragionare sarebbe questo? Mi
piacciono di più le belle poesie, le riflessioni sui sentimenti umani, ma
non i ragionamenti campati in aria. Pensi ad esempio a tutte quelle
meravigliose descrizioni della località in cui si muovono i personaggi dei
Promessi Sposi del Manzoni. La rivolta di Milano, per i fornai, la peste che
uccide anche l’Innominato, tanto perverso e sadico in vita, ma al momento
del trapasso, pentito e con l’animo pieno di rimorsi. Lucia e sua madre
sempre in apprensione e spaventate per l’arroganza cui erano soggette, da
chi comandava. Erano però molto buone e fiduciose nella Divina provvidenza.
Ci sono tanti episodi di questo meraviglioso romanzo che commuovono. A volte
ci farebbero ribellare agli insulti dei prepotenti e dei pusillanimi. Il
sacerdote pauroso che pensa solo a sè stesso, perchè minacciato dai “Bravi’
di non celebrare il matrimonio fra Renzo e Lucia. L’allontanamento delle due
donne nella barca sul lago di Como, e la tenerezza con cui Lucia salute quel
luogo ad essa tanto caro. La piccola Cecilia deposta dalla madre nel carro,
che doveva portarla alla sepoltura; al doloroso saluto di addio tanto
affettuoso che le indirizza, e rivolgendosi ai Monatti, ai quali consegna
qualche moneta pregandoli di non toccare nulla di ciò che indossa la piccolo
morta. Leggevamo con un certo interesse le belle poesie del Carducci che
commentavamo secondo un nostro giudizio. Ci colpì la poesia di cui ricordo
alcuni versi: “Che è mai la vita ?” “L’ombra d’un segno fuggente! La favola
breve e finite, il vero immortale è l’amor!” Questi versi dicono tante cose
belle e ???? di sentimenti, disse Gaspare; però noi dobbiamo ancora viverla
la favola cui accenna il Carducci. Speriamo sia molto lunga la nostra favola
della vita e giunti alla fine si possa veramente affermare l’immortalità
dell’amore.
CAPITOLO 7º
La segretaria
dell’avvocato era finalmente arrivata. Io ritornavo al lavoro nel
ristorante. Era un aiuto importante il mio, per il disbrigo della
contabilità e del lavoro mattutino al bancone del bar ove si distribuivano,
caffè, liquori, caffè latte, dolciumi, focaccia, panini imbottiti, e tanti
altri articoli per colazione e merenda, per svolgere queste mansioni
necessitavano al bar tre persone. A partire dalle 7 alle ore 8 ogni
mattino,orario in cui gli operai ed gli impiegati dovevano entrare in
Arsenale, si affollavano al bancone per richieste varie. Era necessario
svolgere il lavoro con prontezza, perchè tutti avevano fretta. Al fischio
della seconda sirena, quello delle 8, l’entrata al comprensorio militare,
veniva vietata ai ritardatari, i quali perdevano così parte del loro già
magro salario.
Il ristorante era ubicato di fronte ad una delle principali
porte di accesso all’Arsenale, che ingoiava ogni mattino parecchie centinaia
di persone, addette ai lavori. Durante la permanenza nello studio
dell’avvocato, avevo potuto notare un certo interessamento di Gaspare nei
miei riguardi. Confesso che l’interessamento fu reciproco. Lo studio aveva
un balcone in facciata, ed essendo situato al terzo piano del palazzo,
godeva di un ottimo punto di osservazione. Dal balcone si poteva osservare
l’immensa distesa dell’Arsenale, con le numerose officine e i bacini di
carenaggio usato per le navi in riparazione, o in costruzione. Lo
spostamento da una zona all’altra della Darsena veniva effettuato per mezzo
di un trenino a vapore. Le persone impiegate che si recavano in città
approfittavano del mezzo che la direzione dell’arsenale metteva
gratuitamente a loro disposizione. Puntualissima alle ore 12 di ogni giorno,
io ero al balcone, nell’attesa dell’arrivo del trenino che trasportava
Gaspare. Una nuvoletta di fumo, poi un fischio. Quel fischio mi faceva
felice, precedeva di un attimo, la presenza della persona che amavo
silenziosamente. Lo osservavo scendere dal predellino del treno, e lo
seguivo fino all’uscita dalla porta principale. Ne mezzo della moltitudine
dei viaggiatori, lo potevo distinguere con facilità, per la sua statura ed
il suo incedere compassato abituale. Anche Gaspare conosceva il balcone ove
io lo attendevo, e come mi disse in seguito: “Appena sceso dal trenino, il
mio pensiero correva con lo sguardo a quel balcone del terzo piano, ove una
snella figura di donna mi attendeva”. “ Quella presenza mi rallegrava.
Pensavo che qualcuno mi voleva bene !” Ci amavamo in silenzio,
accontentandoci solo di poterci vedere, parlare, discutere degli argomenti
più disparati, senza esternarci reciprocamente a voce l’amore che
coltivavamo e nutrivamo l’uno per l’altro. In quegli anni fece molto
scalpore in Italia un caso giudiziario, che ebbe tanta risonanza anche
all’estro. Fu chiamato il caso “Bruneri – Canella” . Nel cimitero di
Collegno, paese nelle vicinanze di Torino, fu arrestato un uomo, colto in
flagrante mentre rubava da una tomba un vaso in bronzo, di un cero valore
artistico. Fu arrestato, indosso non gli furono trovati documenti di
riconoscimento: gli inquirenti si trovarono di fronte un uomo che,
fingendosi smemorato, dichiarò di non conoscere la propria identità. La sua
immagine apparve su tutti i giornali dell’epoca: si invitava chi lo avesse
riconosciuto a scrivere indicandone le generalità. Da parte di coloro che
avrebbero potuto riconoscerlo, furono fatte le più strane e svariate
ammissioni. Qualcuno disse di riconoscere in lui un editore libraio, già reo
in passato di furti e imbrogli, di cognome Bruneri, residente a Torino. Si
presentarono due donne che viste le fotografie erano sicure dell’identità
dello smemorato. Una era la moglie di Bruneri, col figlioletto di 15 anni di
età, ella giurò di riconoscere in quell’uomo il marito di nome Mario Bruneri,
che esercitava il lavoro di editore libraio. L’altra, la moglie del
professore di filosofia Canella Giulio, con due figli, e giurò anch’essa di
riconoscere nello sconosciuto il proprio marito. La presunta moglie di
Bruneri si presentò in abiti modesti e dimessi (come scrivevano i
giornalisti dell’epoca). L’altra molto elegante negli abiti e distinta nel
portamento. In questi casi così strani, e si direbbe inverosimili, è logico
che i giornalisti andassero a gara per diffondere notizie che a prima vista
sembravano vere, ed il giorno seguente venivano rinnegate. Seguirono esami
del sangue sui “suoi” figli e sullo sconosciuto, ma tutto risultò insicuro.
Furono fatti esami sul patrimonio intellettuale dello smemorato, ma la
matassa intrigata, iniziata nel cimitero di Collegno non si dipanò,
rimanendo per sempre indecifrata. Dai registri dello stato civile, il
professor Canella risultava disperse, o deceduto sul fronte Albanese, ove
nel conflitto 1915 – 1918, prestava il servizio militare, col grado di
ufficiale dell’esercito. Erano trascorsi dodici anni dal termine del
conflitto, e naturalmente nell’arco di questo tempo, anche la persona
presunta Canella sarebbe invecchiata. La signora Canella, usò questa
considerazione, che il marito poteva essere invecchiato, ed i tratti
potevano giustificare l’immagine del marito. Forse la signora Canella poteva
aver preso un abbaglio. Quell’uomo poteva essere un potenziale sosia del
vero marito: ciononostante non esitò ad accoglierlo subito in casa sua,
considerandolo come il vero marito, a tutti gli effetti. I famigliari del
professore che in un primo momento avevano notato la forte somiglianza con
il disperse, in seguito si rifiutarono di riconoscere nello smemorato il
vero congiunto. Ormai era troppo tardi per tornare indietro. La signora
Canella si era compromessa moralmente, perciò insistette nella protezione
dello smemorato. Era molto ricca e non badò né a spese né tantomeno ai
pettegolezzi. Si trasferì col presunto marito, che nel frattempo gli aveva
dato due figli, in Argentina. Della famiglia Bruneri si seppe che il figlio
ripudiato ingiustamente dal padre, e cresciuto in un ambiente modesto, al
fianco di una madre saggia ed onesta, divenne sacerdote. Della famiglia
Canella non si seppe più nulla. In quella saletta del ristorante di Spezia
utilizzata pure da ripostiglio svolgevamo la vita intimamente lavorativa e
famigliare. Si discuteva anche del rebus Canella – Bruneri. Mia sorella
Irma, già insegnante elementare, ogni tanto arrivava dal paese di Corniglia,
insegnava in una piccolo frazione del paese, chiamata San Bernardino. Doveva
procurarsi i generi alimentari per vivere, perchè in quella povera frazione
sperduta fra i boschi e i vigneti, non avrebbe trovato nulla. Doveva
comprare perfino i quaderni per gli scolari, e spesso non le venivano
rimborsati i denari spesi per quegli acquisti. Alle nostre discussioni sullo
smemorato di Collegno si univano anche le considerazioni di mia mamma e di
Irma. Gaspare, a sua volta, aggiungeva le sue opinioni dicendo: “dal
giornale di ieri si capiva che lo smemorato è Bruneri: da quello di oggi è
Canella ! ” La discussione però finiva sempre con l’incognita. In quei tempi
le notizie si apprendevano solo dai giornali. La radio e la televisione,
allora non esistevano, o perlomeno la radio trasmetteva solo qualche musica
o qualche dialogo in lingue a noi sconosciute. Quasi sempre in lingua
tedesca. Irma era promessa sposa ad un ufficiale della marina mercantile che
faceva viaggi su navi chiamate motovelieri, in qualità di motorista. Il nome
di motoveliero derivava dal fatto che in presenza di vento la nave spiegava
le vele, ove in assenza accendeva le caldaie utilizzando il motore a nafta.
Il fidanzato di Irma, Ermindo, si recava con la nave, nei porti dell’America
Centrale per il trasporto di grano, soia, fagioli, caffè e molti altri
articoli di consumo. Quei viaggi interminabili, avevano la durata di tre, o
quattro mesi. Ines, la sorella che era rimasta a Campiglia col padre
Costantino, fungeva da direttrice della casa e del ristorante che lassù
avevamo. Era fidanzata con un giovane di Campiglia, Ettore, impiegato
presso l’Arsenale di La Spezia. La nostra famiglia viveva separata, per
ragioni di lavoro. Ci riunivamo ogni tanto per un solo giorno: naturalmente
di Domenica per evitare di perdere i clienti che nei giorni lavorativi
consumavano i pasti nel nostro ristorante di Spezia.. Mi riferisco agli anni
del 1900: anni in cui i mezzi di locomozione e trasporto erano solo il
tranvai elettrico e la carrozza a cavallo. Andavamo perciò, dalla città,
all’inizio della strada mulattiera (in località Acquasanta) col tranvai, poi
a piedi fino a Campiglia, percorrendo 6 chilometri di strada non asfaltata.
Il dislivello da superare era di 400 metri, la strada aveva un pendio
abbastanza abbordabile. La totalità del percorso per il paese non era
eccessivamente faticosa, soprattutto per giovani come noi eravamo. La strada
carrozzabile che oggi arriva a Campiglia attraversa la fortificazione di
“Costa Rossa”, in quei tempi riservata solo al passaggio delle forze armate.
Era zona considerate pericolosa per i grandi depositi di esplosivi ed armi,
riposte nelle gallerie sotterranee e scavate nella montagna.. Oggi la
fortezza descritta è in disuso; le nuove scoperte di difesa ed offesa sono
cambiate. Si parla di aerei supersonici e di bombe atomiche. Ordigni che
distruggeranno il mondo intero, se le nazioni che fabbricano queste armi
micidiali non penseranno di agire con coscienza per difendere le persone, e
le cose che Iddio ha concesso all’uomo. La fortezza di Costa Rossa allora
inviolabile, è oggi quasi scomparsa. Le casematte, la caserma ed il fortino
sono completamente ricoperte di arbusti e di piante d’alto fusto che
cancellano completamente il primitive aspetto della fortificazione.
(CONTINUA)