Era estate a Campiglia

10-06-12

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Lettera da Marinella
Era estate a Campiglia
Mail Luca Natale
Collettiva d'arte

 


ERA ESTATE A CAMPIGLIA


 


Racconto 

 

E tutto, nell'aria profumata dalla terra

ebbra di amore, dal mare ebbro di

vento e di sole, tutto mi diceva

con voce così dolce, così forte: "Non v'è

che questa vita, non v'è che l'amore... ".

(A.  Fogazzaro)

 

 

Era mezzanotte quando il treno è arrivato.

Nella luce dei lampioni della stazione ti ho visto affacciato al finestrino, già pronto per scendere. Come era strano vederti arrivare! Questa volta eri tu che venivi da me e non mi sembrava ancora possibile che fosse accaduto. Ho guidato la macchina in una corsa morbida lungo i viali oscuri e deserti, fino a casa mia. Il giorno dopo saremmo partiti per quella delle vacanze. C'è stato il bagno caldo e la tua impazienza di mostrarmi i regali che avevi portato, altri e costosi dopo quelli che mi avevi già dato a Parigi, e una tisana per il tuo sonno. Eri un po' nervoso, come impaurito, anche se eravamo soli in casa. Ti avevo riservato la mia camera e quando ti sei coricato tra le lenzuola azzurre ti ho preso il capo tra le mani: «Sai Gabriel» ti ho detto, «mi sembra che sei sempre stato qui: è così naturale averti a casa!». «Gracias» hai detto finalmente sorridendo e rilassandoti. «Dormi bene». Ho spento la luce e sono uscita piano. La casa per l'estate, che prendevamo in affitto ormai da alcuni anni, era in un paesino affondato nelle pinete. Offriva il vantaggio di un ambiente tranquillo e allo stesso tempo non era distante dal mare e dalla città. Il panorama da lassù era bellissimo: si vedeva l'ampia conca del porto, la città circondata dal grande anfiteatro di colline verdi e, dietro queste, alte, le montagne di roccia bianca e grigia. 

La casa era molto antica, come tutto il paese, ed era stata ristrutturata e rimodernata al suo interno solo di recente. I muri esterni erano fatti di pietre grigie di arenaria, squadrate e tenute insieme da una malta di calce e sabbia. Era vietato intonacare le case all'esterno. C'erano poche eccezioni che contrastavano col resto dei muri in pietra. Noi avevamo scelto questa anche perché era l'ultima alla fine di una stradina lastricata e davanti non aveva che qualche campo con delle viti, molto verde e tutta la vista aperta sulle pinete e sul grande panorama. Ci sentivamo piacevolmente isolati, pur appartenendo al paese. Avevamo una camera da letto e una sala molto vasta e un bagno moderno aggiunto da poco. Fuori c'erano una terrazza e un giardino con dei ciliegi e altri alberi da frutta e piante di girasole le cui teste pesanti si reclinavano fuori dalla palizzata di legno vecchio. Una vite a pergola ombreggiava l'ingresso. La stanza da letto era sopra la sala e si raggiungeva con una scala esterna che finiva sulla terrazza, sotto la quale era stato ricavato il bagno. A te avevamo dato il letto di mio fratello al piano di sotto, nell'angolo più intimo della vasta sala, vicino al caminetto. Dietro una credenza antica, che arrivava quasi al soffitto, e una tenda a fiori, c'era l'angolo del cucinino con l'acquaio di marmo bianco e i fornelli a gas. Il resto dello spazio, sotto la finestra, era occupato da un tavolo massiccio e rettangolare attorno al quale prendevamo i pasti. La sala era imbiancata a calce ed era molto fresca anche nelle ore più calde del giorno. Mia madre ed io occupavamo un grande letto matrimoniale al piano di sopra, nella camera arredata in stile tradizionale, nuova, ma un po' fuori moda. C'erano un armadio a specchi e una cassettiera con il ripiano di cristallo color oro opaco. I muri erano rosa e il letto era coperto di raso giallo. Appena ne prendevamo possesso facevamo sparire dentro i cassetti tutti gli orribili soprammobili che la padrona di casa disponeva in giro. Mio fratello trascorreva le vacanze con la fidanzata e se arrivava per una visita occasionale tiravamo fuori una branda pieghevole e la mettevamo in un angolo per lui. Mia madre ti ha accolto con le poche parole di spagnolo che aveva imparato: "Bienvenido, buenas dias, buenas noches, ha comido bien?" Per il resto ha lasciato fare a me e noi parlavamo inglese per tutto il tempo, cosicché nel paese nessuno all'inizio si è accorto che tu fossi spagnolo e ti chiamavano "l'inglese". Credevano che fossi il figlio dei signori che mi avevano ospitato l'estate precedente, quando ero andata in Inghilterra.  Eri molto stanco, i primi giorni, perciò non andavamo ancora alla spiaggia e dopo i pasti ti lasciavamo nella sala fresca e buia a riposare. La sera, dopo cena, ci ritiravamo molto presto. Con il sonno ed il riposo ti sono tornate le energie. La mattina io portavo giù i miei libri e studiavo, tu andavi a passeggio nelle pinete e mi raccontavi, al ritorno, che ti eri messo a fare esercizi di respirazione a torso nudo e flessioni e che avevi preso il sole. «Pués el aire del pinar es bueno» mi dicevi. «Mi sembra di essere tornato nelle mie pinete come quando ero ragazzo, anche se ora il profumo non lo sento più». Finalmente alla spiaggia ora potevi nuotare insieme con me. Per la prima volta scoprivamo i nostri corpi liberi dagli abiti. «Sai che sembri ancora più giovane, così?» mi dicevi. «E il verde dei tuoi occhi è più chiaro». Ridevo: «Sarà il riflesso del mare». «Ligarta, eres corno una ligarta» mi canzonavi, mentre me ne stavo appiattita sulla sabbia assorbendo il sole da tutti i pori, immobile. Tu, invece, non sopportavi il riverbero che per pochi minuti e poi ti rifugiavi sotto l'ombrellone. «Che razza di spagnolo sei?» ti pizzicavo a mia volta. «Invece di essere bruno hai la pelle bianca come quella di una donna». Guardavo il tuo petto glabro e liscio, le spalle piene, le braccia leggermente dorate dove le maniche corte della maglietta le lasciavano scoperte durante il giorno. La mia pelle, invece, diventava sempre più abbronzata. Ero davvero felice come una lucertola al sole. «Gabriel, mi porterai al mare quando saremo in Spagna?» ti ho chiesto una volta un po' preoccupata. «Qué va. Certo che possiamo andarci». All'improvviso mi era balenata davanti agli occhi l'immagine di un "piso" in un grande palazzo moderno, davanti alle cui finestre c'erano altri palazzi tutti uguali e asfalto e cemento e pochi alberi nella periferia bruciata di Madrid. E soprattutto nessun orizzonte, nessuna linea azzurra, nessun luccichio d'acqua sotto la luna o sotto il sole, nessun fiutare di salmastro quando il vento veniva da sud. «Potrei farmi trasferire a Barcellona» hai detto tu. «È facile ottenere il trasferimento. Ti piacerebbe? Dopotutto Madrid non è la mia città». «Oh, Gabriel, sarebbe magnifico. Sarei anche un po' più vicina all'Italia...». «Tutta la Spagna ha belle città sul mare» hai detto tu orgoglioso: «le spiagge sono immense». Felice mi sono allungata di nuovo sull'asciugamano di spugna. Ora sognavo le spiagge dorate del Mediterraneo e mi sentivo più tranquilla. Le dita dei piedi scavavano automaticamente nella sabbia calda e pensavo che niente al mondo mi piaceva di più che stare al sole e chiudere gli occhi allo sfavillio riverberante delle onde e scavare la sabbia calda con le dita dei piedi. Più tardi, mi sono abbandonata ad una lunga nuotata oltre il molo di protezione. Girandomi sul dorso a riposare ti ho visto fermo, in piedi nell'acqua che ti arrivava al petto, mentre mi guardavi con aria smarrita e preoccupata. Allora mi sono ricordata che avevi imparato a nuotare in piscina, a Madrid, e che questo era il tuo primo vero incontro con il mare. Intenerita sono tornata indietro. Mi hai preso tra le braccia grondante: «Non ti allontanare mai da me» hai detto. Il tuo bacio sapeva di sale. Tenendoci per mano siamo tornati a riva. È stato il giorno che mia madre è andata in città che sei salito al piano di sopra mentre facevo la siesta pomeridiana. Ti sei sdraiato sul letto. «Voglio vedere come è fatta una donna» hai detto. «Ti prego, lasciami vedere, così come io ho fatto con te a Parigi». Mi è sembrata una richiesta legittima. «Va bene, però tu non toccare» ti ho detto.  Le mutandine si sono arrotolate sotto le mie mani mentre inarcavo i fianchi per toglierle. È apparso il triangolo di peluria del pube; poi, aiutandomi con le mani e divaricando le gambe, ho cercato di mostrarti come ero fatta. Aguzzavi lo sguardo esaminando in silenzio come se fossi stato un dottore. «Com'è diverso da come immaginavo» hai detto infine. Hai messo un dito sull'imene spingendo un poco. «No» ti ho detto, tornando a serrare le gambe.  «Non voglio farti niente. Grazie per avermi lasciato vedere».  «Sai che sei la prima persona a cui l'ho permesso? Neppure il dottore, né mia madre sanno come sono lì, eccetto che da piccola, penso».  Allora, mentre mi aiutavi ad infilare nuovamente le mutandine ti sei chinato ed hai posato un bacio lievissimo sul pube, dove il bianco confine della carne cominciava a confondersi con la linea del pelo.  È stato come un tocco di farfalla e così tenero che neppure sulla bocca mi avevi mai baciata così.  Sei scivolato di nuovo accanto a me.  «Senti, Clara, ora non posso andarmene dopo averti vista così. Devo fare qualcosa. Aiutami. Non aver paura. Prendi qualcosa per coprirti la maglietta. Forse ti bagnerò». Non riuscivo a capire che cosa avessi intenzione di fare, ma sono scesa dal letto a piedi nudi e, cercando in un cassetto, ho trovato un piccolo asciugamano di spugna. «Va bene, questo?».  «Sì. Vieni accanto a me, ora». Ti eri tolto i calzoni e la maglietta e giacevi bocconi sul letto in slips e canottiera come me. Quando mi sono sdraiata accanto a te mi hai detto sollevandoti: «Ecco, ora stendilo qui».  Mi hai aiutata a sistemare l'asciugamano di traverso sui fianchi e poi il peso del tuo corpo si è abbattuto su di me. La tua bocca ha cercato la mia, una delle tue mani febbrili mi ha scoperto il seno. Già succhiavi avidamente.  Sentivo i tuoi fianchi alzarsi ed abbassarsi rapidi e oltre le tue spalle ho visto la curva bianca delle tue natiche.  Avevi abbassato gli slips fino a metà coscia e la mano che non mi stringeva spariva sotto il tuo ventre. Ansavi e gemevi e di dentro il tuo petto veniva un suono strano, straziante e supplichevole, come di morte e di desiderio e d'estasi.  Poi un silenzio improvviso e vasto come quando dopo le prime avvisaglie di tuono dentro i boschi le voci degli uccelli e lo stormire delle fronde tacciono insieme e per pochi attimi tutto è nell'aspettazione della pioggia.  Ho trattenuto il fiato aspettando. Uno spruzzo tiepido e leggero mi ha bagnato un fianco penetrando attraverso la sottile maglietta. Sotto i tuoi movimenti frenetici l'asciugamano era caduto e non mi aveva protetta.  Con un gemito ti sei abbattuto nuovamente su di me, nascondendo il volto nell'incavo della mia spalla. Ti ho lasciato per alcuni attimi così, poi, contorcendomi, ti sono scivolata via di sotto.  La mia maglietta aveva una chiazza larga e sotto sentivo la pelle farsi appiccicosa. Ti eri coperto col lenzuolo e il pallore del tuo viso era impressionante. «Ti senti bene?»  Ti guardavo preoccupata.  «Sì, lasciami solo un po' riposare».  Sorridevi stancamente.  Allora ho raccolto le mie cose e l'asciugamano. In vestaglia sono scesa nel bagno.

Lì mi sono lavata, ho indossato della biancheria pulita e mi sono rivestita. Poi sono andata a sedermi fuori sotto la pergola, al fresco, aspettandoti.

L'unica sensazione che non riuscivo a togliermi di dosso era quel bacio così dolce, che avevi deposto sul mio pube. Sotto i vestiti la mia carne ne rabbrividiva ancora.

Se il tuo primo bacio, a Londra, mi aveva delusa, capivo che questo, al contrario, non lo avrei mai dimenticato. Avevi finalmente capito che eri stato il primo per me.

 

I giorni estivi scivolavano via lunghi e dorati. C'erano le mie mattinate di studio e le tue solitarie passeggiate nella pineta.

Le corse alla spiaggia nei pomeriggi assolati. Nel giardino di fronte alla casa le ultime ciliege disfatte cadevano sul terreno soffice e asciutto e un esercito di formiche e di vespe lavorava alacremente. I grappoli di uva verde si gonfiavano sotto la pergola.

I girasoli pesanti, colore dell'oro brunito, si sgranavano lentamente dietro la palizzata.

A sera la luna spuntava sopra il profilo nero delle pinete: gialla, grande, liquida, nell'indaco cupo del cielo.

Avrei voluto che una volta mi prendessi per mano e mi dicessi: "Andiamo a vedere la luna sul mare." Era bello vederla da lassù, ma non l'hai mai detto.

Dopo cena ti sprofondavi nella poltrona di vimini davanti a casa. Io stavo seduta sul muretto di pietra che conservava traccia del calore diurno. Parlavamo o restavamo in silenzio a guardare la luna che saliva al centro del cielo.

Mia madre partecipava poco alle nostre conversazioni, sebbene io facessi da interprete.

Si ritirava prima di noi, raccomandandomi di non attardarmi troppo.

In una di queste sere, non so come eravamo tornati sull'argomento, hai detto:

«Se tu avessi fatto con un altro ragazzo quello che io ho fatto con Joy, la profesora, ti avrei lasciato».

«Sono sempre in tempo a fare altrettanto!» ti ho risposto e senza darti il bacio della buona notte ho preceduto, una volta tanto, mia madre di sopra.

Il mattino seguente - scendevo sempre io per prima a preparare la colazione - non mi sono avvicinata al tuo letto.

Con un secco "Good morning" sono sparita dietro la tenda del cucinino. Avevo preso l'abitudine di servirti la colazione a létto su un vassoio. Mangiavi sempre così poco!

Quando sono ricomparsa coi bricchi del thé e del caffé caldi ho sentito il tuo sguardo seguirmi, mentre tiravo fuori tazze e piattini dalla credenza.

Le altre mattine, al mio irrompere fresca e profumata di lavatura recente, c'era la corsa al tuo letto, lo scompigliarti i capelli, lo stringerti a me ancora tiepido di sonno, che ti lasciava sul volto una traccia d'infanzia, di dolcezza, che scompariva subito al tuo frugare impaziente, allegro, tra le pieghe della mia camicetta e: «Dame la leche. El tino quiere su leche por la mariana».

Afferravi la piccola mammella bianco rosata, col capezzolo rosso subito erto e vi imprimevi la bocca golosamente. Mi pungevi con la barba dura. Mi ricomponevo alla svelta ributtandoti ridente sul guanciale e poi mi affrettavo qui e là con le tazze e la teiera. Ti lasciavo per pochi minuti: il tempo di portare il thè alla mamma, al piano di sopra, e poi mi sedevo al tavolo mentre tu finivi di bere il tuo caffè col latte e sbocconcellavi i biscotti o la fetta di dolce avanzata la sera prima. Mentre rigovernavo e rifacevo il tuo letto tu andavi nel bagno a raderti.

Ora, mentre mi avvicinavo col vassoio, tu hai detto: «Niente bacio stamattina?»

Tenevi le mani sotto le lenzuola, nonostante ti fossi sollevato a sedere.

«Non te lo meriti».

«Mi sembri un sergente! Anche ieri sera hai parlato come un sergente».

«Se in un altro modo non riesco a farmi capire...». Puntiglioso non tiravi fuori le mani per prendere il vassoio,

così te l'ho deposto sulle ginocchia e sono tornata al tavolo davanti alla mia tazza.

Hai riso:

«Ma guarda un po'!» hai detto.

La pace l'abbiamo fatta molto più tardi, quando hai ammesso finalmente:

«Hai ragione tu, uomini e donne hanno gli stessi doveri e gli stessi diritti».

I bisticci erano rari, eppure silenziosamente violenti da parte mia. Non sempre riuscivo a dirti quello che pensavo e mi chiudevo nei miei silenzi amari, quando qualcosa mi aveva offeso.

Come quella volta che una mia amica è venuta a trovarci col fidanzato. Lei indossava una minigonna e sotto i pini dove eravamo andati in cerca di refrigerio, cambiando continuamente posizione con cento scuse, agitava le gambe, che aveva molto belle, fino a far intravedere, baluginante, il triangolo bianco delle mutandine. Mi aveva confidato, in disparte, di aver bisticciato col fidanzato e forse c'era nel suo atteggiamento qualcosa di provocatorio nei suoi confronti, specie quando si è accorta che tu seguivi come affascinato la danza delle sue gambe abbronzate senza distogliere neppure un attimo lo sguardo.

Sapevo che se io avessi indossato una minigonna lo avresti considerato un affronto personale.

Solamente quando gli amici se ne sono andati, dandoci appuntamento per la sera, al locale dove si ballava, ti sei accorto di come era il mio viso.

Non c'era gioia, quella sera, mentre mi vestivo per andare al nostro primo ballo d'estate; ballo a cui mi accompagnavi dopo le insistenze di altri e non per tua iniziativa. Eppure sapevi quanto ci tenessi. Eri molto elegante nell'abito nuovo, blu, che avevamo acquistato insieme a Parigi, ma io non riuscivo a sorriderti.

Più tardi, seduti ancora soli con i festoni di lampioncini colorati sulle nostre teste e altre luci che si riflettevano nell'acqua tutt'intorno, mentre io fissavo ostinatamente un punto davanti a me, ho sentito il tuo braccio che mi cingeva le spalle e l'alitare del tuo volto che si chinava dolente sul mio

«Clara, lo sai che sono tuo e solo tuo e tuo per sempre».

Questa volta non c'era stato bisogno di fare il sergente e, senza neppure che avessimo sfiorato l'argomento, eri tu che mi chiedevi spontaneamente scusa.

Quando gli altri sono arrivati, con molto ritardo, il mio rancore era svanito e del resto, allacciati strettamente sulla pista semibuia, ci hanno lasciati quasi sempre soli al nostro tavolo per tutta la serata.

Abbiamo ballato anche noi, i balli lenti che sapevamo fare, per un'ora circa fino a che non hai detto:

«Andiamo sulla terrazza, fa troppo caldo qui».

Passando all'aperto hai rubato un geranio rosa da un vaso e me l'hai offerto.

La terrazza era deserta, con le sedie a sdraio allineate e gli ombrelloni chiusi.

Ci siamo seduti.

La tela della sedia era umida, di quell'umido salmastro di cui si impregnano le cose, a sera, nei posti di mare, e la sentivo fresca sotto l'abito sottile.

Ti sei allentato la cravatta respirando profondamente. Eri molto pallido, come ti avevo visto quella volta, tra le lenzuola. «Stai male, Gabriel?».

Sorridevi stancamente come quella volta.

«No, no.  È stato solo il caldo. Qui si sta bene».

Ti sei sistemato sulla sedia a sdraio e mi hai preso una mano. Poi hai reclinato il capo di lato chiudendo gli occhi.

Davanti a noi, nell'ansa profonda della baia, la luna disegnava un solco dorato sull'acqua. C'era una leggera brezza e la spuma delle onde di un color lattescente e azzurrognolo si riversava sulla spiaggia nera. Sentivo il mare insinuarsi cupamente fin sotto la terrazza dove eravamo.

Qualche altra coppia fuggiva dall'interno del locale in cerca di refrigerio e di intimità.

-Sentivo risatine nel buio mentre fiammelle di accendini guizzavano e si spegnevano qui e là, rivelando per un attimo le persone in atteggiamento confidenziale, i visi chini, le sigarette tra le dita. Con la mano abbandonata tra le tue e l'altra che giocherellava col fiore, facevo fatica a trattenere i piedi dal seguire il ritmo della musica che giungeva fin lì, smorzata. Quando i suoni lenti, sincopati, hawaiani di "Ebb Tide" si sono levati ad evocare languide spiagge da Mari del Sud mi sono girata dalla tua parte. Le ciglia chiuse ti disegnavano una barra scura sul volto.

«Gabriel, dormi?».

Hai aperto gli occhi in fretta.

«No, no».

Sorridevi. Poi una smorfia:

«Qué malo soy. Ti sto rovinando la serata».

Mi hai dato un bacio mentre le ultime note morivano come un sospiro.

«No, no» ho mentito. «Si sta bene qui. Riposati pure».

Gli amici sono venuti a cercarci molto più tardi. Giovani, ansanti, vagamente traspiranti:

«Eccoli  qui i due piccioncini dove si sono rifugiati a tubare!». Lei si è lasciata cadere nella sdraio alla mia sinistra "Come sono stanca Clara! Quanto ho ballato! Dove hai preso quel fiore?"

«Lo ha rubato Gabriel».

«Tu non hai mai di queste attenzioni per me» ha detto facendo il broncetto al fidanzato.

«Provvedo subito» ha detto lui alzandosi.

Poco dopo era di ritorno con un altro fiore di geranio. «È tutto spelacchiato» lo ha rimproverato lei. «L'ho preso al buio...»

Hanno continuato la loro schermaglia per un po' e poi ci siamo avviati tutti e quattro verso le macchine.

«Torniamo qualche altra volta» hanno proposto. «Volete?». «Sì, sì» ho risposto vagamente, ma sapevo che quello sarebbe stato il nostro primo e ultimo ballo d'estate.

 

Nei giorni seguenti hai detto di sentirti molto stanco e abbiamo sospeso le gite alla spiaggia.

In verità mi ero accorta, e anche mia madre me lo aveva fatto notare, che ti costringevo ad una vita troppo movimentata.

Io scoppiavo di energia: il mare, il nuoto, il sole, quel profumo di terra asciutta, di erbe aromatiche e di pini decuplicavano le mie forze. Volevo farti vedere tutto, dividere tutto con te.

Due volte la settimana tornavo in città per prendere lezioni private di inglese e per darne, a mia volta, ad alcuni studenti che mi raggiungevano a casa.

Ti portavo con me per timore che ti annoiassi solo con mia madre. Per un'ora vagabondavi per la città attendendo che terminassi la lezione. Ti piaceva: era una piccola città tranquilla se paragonata a Londra o a Parigi o a Madrid. Passeggiavi nei viali ombrosi e alberati, nei freschi giardini di fronte al mare. Una volta mi hai raccontato ridendo che eri entrato in un bar e avevi chiesto un caffé: ti avevano messo davanti la tazzina dell'espresso nero e denso e tu non sapevi come fare per spiegare che non era quello ciò che volevi. Ho riso anch'io e ti ho detto che avresti dovuto chiedere un "cappuccino", per avere qualcosa di buono in una tazza grande come quelle del caffé all'inglese o dei crémes di Parigi.

«Cappuccino, cappuccino» hai ripetuto varie volte per memorizzare il nuovo nome e la tua pronuncia era molto buffa.

Più tardi mi seguivi a casa. Mentre io insegnavo ai ragazzi tu ti chiudevi nel salotto e ascoltavi i miei dischi. Ripartivamo dopo mezzogiorno.

Avevamo fatto qualche gita. Eri venuto a vedere la mia università e il posto di campagna dove ero nata e avevo vissuto per quasi dieci anni - che tristezza per me la grande casa chiusa che andava lentamente in rovina e il giardino e l'orto pieni di rovi e di erbacce dove avevo giocato bambina come in un Eden -.

Ora conoscevi, inoltre, tutti i luoghi incantevoli lungo la costa.

Un giorno eravamo partiti all'alba per una spiaggia che si raggiungeva solo dal mare, oppure da un sentiero stretto e tortuoso che partiva dalle nostre pinete. Era uno dei posti che amavo di più: la spiaggia sassosa con enormi ciottoli levigati e rocce rosse a strapiombo e scogli grigi dappertutto. Il mare così verde e trasparente che veniva voglia dì berlo. C'era una specie dì grotta fresca che si apriva all'estremità della. spiaggia e lì avevamo sistemato le nostre provviste, vicino alla sorgente di acqua dolce che sgorgava dalla roccia. Passava qualche barca di pescatori o di gitanti, ma il posto era frequentato da pochi: troppo difficile l'approdo. Sdraiata accanto a te nella grotta, con la roccia vasta sul capo e il mare scintillante davanti a noi, al riparo da ogni sguardo indiscreto, mi sentivo morire. Sotto il costume il mio corpo conservava ancora la traccia del bagno. Sentivo il ventre e i seni freschi come il corpo di un mollusco appena strappato allo scoglio e, come quello, salati alle labbra. Ho allungato una mano abbronzata verso di te.

Tenevi le braccia incrociate sotto il capo e gli occhi chiusi. Mi hai dato un bacio distratto.

Sono fuggita su una roccia alta, in pieno sole. Scottava. I gabbiani planavano in alto cercando i loro nidi nella parete a picco che limitava la spiaggia per tutta la sua lunghezza. Agavi azzurre e fichi d'India coperti di frutti rossi e arancione svettavano contro il cielo terso. Respiravo il mare. Riversa sulla roccia ho desiderato che il mio corpo divenisse parte di essa e che il sole non finisse mai e che, con occhi di pietra, potessi continuare a fissare tutto in eterno.

Più tardi sei venuto a cercarmi, ma il sole era troppo forte per te. Sei sceso nuovamente vicino all'acqua per rinfrescarti. È stato allora che un polipo ti ha afferrato una caviglia con i tentacoli.

«Prendilo, prendilo Gabriel!» ti ho gridato eccitata.

Ma al tuo movimento brusco è scivolato via nascondendosi tra i sassi del fondo.

«Che cos'era?» hai chiesto incuriosito e per nulla spaventato. «Una biscia d'acqua?».

«No, no» ho riso alla tua inesperienza di mare. «Era un polipo. È buono da mangiare. E la prima volta che mi capita di vederlo afferrare una persona. Di solito fuggono». È stata una giornata piena di "incontri" straordinari. Dopo il polipo è venuto un gabbiano a dissetarsi alla sorgente e, più tardi, per la prima volta in vita mia, ho visto un martin pescatore dalle piume incredibili, mentre volteggiava sull'acqua bassa in cerca di pesciolini. Al tramonto la risalita sul sentiero di roccia è stata faticosa.

 

In quei giorni avevi anche sopportato l'incontro con i miei parenti che, incuriositi, erano venuti per conoscerti.

Non potevano far altro che sorriderti e stringerti la mano e scambiare qualche frase di convenienza attraverso la mia traduzione.

Ti trovavano simpatico e carino. Ripartivano in giornata, soddisfatti.

Con impazienza avevo aspettato la visita dell'unico zio che parlava inglese. Veniva da lontano, da un'altra città di mare dove si era sposato e in cui viveva da tempo. Siccome non avevo padre ed era l'unico che potesse parlare con te, mi ero aspettata che ti prendesse in disparte e che avreste fatto una chiacchierata tra uomini e discusso del mio futuro. Avevo confidenza con lui, ero stata spesso sua ospite e ci scambiavamo lunghe lettere.

Invece non è successo niente. Lo zio è arrivato elegante ed impeccabile come sempre, accompagnato dalla moglie e dalla figlia. Mia cugina nel giro di pochi anni, da bambina timida e dolce che ricordavo, si era trasformata in una splendida diciotténne. Ora portava i lunghi capelli, che erano stati castani, striati di biondo e il suo corpo splendido ed abbronzato aveva più curve di quanto non ricordassi.

I suoi grandi occhi erano verde-mare, colore abbastanza comune in famiglia, ed era truccata pesantemente per la sua età. Portava un abito cortissimo, senza maniche. È stato come se vedessi un'estranea.

Mio zio non aveva occhi che per lei, era la sua unica figlia, e sembrava che fosse venuto a trovarci solo per esibirla al resto della famiglia.

Sua moglie parlava fitto con mia madre, che non vedeva da molto tempo, e fumava.

C'è stato uno scambio di frasi banali. Dopo la prima reazione mi ero attirata la cugina sulle ginocchia. Avevo sempre provato un grande affetto per lei, ero stata per molto tempo una specie di sorella maggiore.

«Oh, Clara» ha sorriso la zia vedendo il gesto. «Ti ricordi di quando era: bambina eh? E di tutte quelle favole che le raccontavi!».

Più tardi ci siamo fatti delle foto. Gruppo di famiglia. Erano venute le altre zie a salutare il fratello, e mio cugino e mio fratello ad abbracciare gli zii e la cugina.

Quando se ne sono andati ti ho chiesto esitante: «Ti è piaciuta mia cugina? È uno splendore vero?». Tu hai alzato le spalle:

«No me gusta» hai detto facendo la tua solita smorfia con le labbra. «No sé. È bella, pero...».

Scuotevi il capo.

È troppo truccata. Mi piace che tu non usi nessun cosmetico e che quando ti bacio la tua bocca sia pulita. Vien voglia di mangiarti tutta intera».

Forse tutte queste cose ti avevano stancato, così ho deciso che ti avrei lasciato finalmente in pace. A volte però non resistevo e portavo i miei libri nella pineta e, mentre tu stavi sdraiato con le braccia incrociate sotto la testa e gli occhi chiusi, cercavo di studiare. Ricordi quella volta che per fare un letto morbido di erbe su cui farti riposare mi sono tagliata con le felci?

La mano ha cominciato subito a sanguinare abbondantemente.

«Diós mio» hai detto tu, «hai la pelle così delicata!».

Hai succhiato le mie ferite e poi mi hai fasciato la mano col tuo fazzoletto, che ha trasudato chiazze rosse.

Quando, dopo giorni, la carne si è rimarginata sono rimaste delle deboli striature bianche e tu ogni tanto ti portavi alle labbra il palmo della mia mano e lo baciavi in un modo che mi dava i brividi lungo la schiena.

 

Prima che tu lasciassi Parigi ti avevo chiesto di portarti dietro tutte le lettere che ti avevo inviato, perché avevi trovato difficoltà di interpretazione in alcuni punti e io ne avevo trovate nelle tue.

Volevo riaprire, chiarire, discutere con te problemi che mi sembravano importanti e sui quali non ci trovavamo sempre d'accordo.

Ora che eri con me mi assaliva a volte l'antica timidezza dei nostri primi incontri e non riuscivo a parlarti come volevo. Pensavo che, ricominciando da una frase delle nostre lettere, un dialogo poteva aprirsi tra noi.

Avevo catalogato le mie e le tue lettere in gruppi; intervallati dagli spazi vuoti dei nostri incontri, e,ognuno di essi era tenuto insieme da un piccolo elastico colorato.

Seduto di fronte a me, nella pineta, ascoltavi le parole che tante volte avevamo letto e riletto nei silenzi delle nostre camere, ma non riuscivi più a ricordare, quando mi interrompevo, che cosa avessi voluto dirmi esattamente in qualche frase su cui ti chiedevo spiegazioni.

«Non so» dicevi stancamente. «Sono confuso. No sé, no sé».

Ti portavi la mano alla fronte come un malato. Allora ho messo via tutte le lettere, vergognandomi di essere ricorsa a quel mezzo arido e pedante per parlare con te delle cose che ci riguardavano.

Fallito questo tentativo mi sono accorta che avevamo ben poco da dirci e che ora passavamo lunghe ore nelle pinete, fianco a fianco, guardando di fronte a noi, in silenzio.

L'unico contatto tra noi erano i baci improvvisi, distratti, privi di significato, che mi davi ad intervalli come per un dovere e, a volte, il rapido palpare sugli abiti leggeri.

Mi lasciavi confusa, inconsciamente eccitata e inconsciamente - ché allora non sapevo di esserlo - insoddisfatta. Un giorno dopo l'altro il mio viso si è coperto di bolle piene d'acqua, che scoppiavano ed essiccavano in una vasta crosta rosso scuro.

Ero spaventata, non mi era mai accaduta una cosa simile, neppure da adolescente quando la maggior parte delle ragazze soffrono di acne.

Ho pensato che forse mangiavo troppi gelati, o pizza, o altre cose in cui eccedevo. Ho provato creme, mi sono cosparsa il volto di polvere di riso prima di coricarmi. Tutto sembrava inutile.

Mi sentivo orribile, come un'appestata. Mi è tornato in mente che due bollitine simili, due e non di più, mi venivano sotto l'orecchio ogni volta che tornavo dall'aver trascorso una settimana con te. Le avevo sempre attribuite al cambiamento d'aria, alla cucina francese... Sparivano in fretta senza lasciar tracce.

Ora tu mi guardavi e dicevi, non so per quale intuizione, che ti rivelava improvvisamente uomo ai miei occhi:

«Sono scherzi del sangue. Es demasiado calor en la sangre».

Sorridevi malizioso negli occhi e allora ho capito quello che volevi dire e che anch'io, pur confusamente, avevo cominciato a sospettare, dopo che il mio corpo già l'aveva compreso da tempo.

Dopo una settimana la pelle del mio viso è tornata normale ed ho ricominciato ad esporla al sole, che ha cancellato ogni traccia.

 

Con la metà di agosto si era levato un forte vento che soffiava impetuoso spazzando il cielo. Bastava cercare un posticino riparato tra le rocce o a ridosso di un muro per illudersi che il calore dell'estate non fosse ancora finito. Il nostro posto preferito, in quei giorni che prelude vagamente all’autunno, era la torre del vecchio mulino al margine della pineta.

Era una costruzione cilindrica, di vecchia arenaria dorata dalle intemperie, con una scala in pietra ormai in rovina, che portava al piano superiore. Nei pressi crescevano due lecci dall'ampia chioma verde-scuro.

Ci mettevamo a sedere con la schiena contro le pietre calde, sul lato dove non arrivava il vento. I lecci mandavano un rumore come di scroscio d'acqua. Le mani intrecciate attorno alle ginocchia, guardavamo in silenzio la distesa d'erba alta, secca, frusciante, davanti a noi; l'eterno lavorio dei formiconi neri sulla terra arida, la danza improvvisa e traballante di una farfalla dalle ali brune screziate di bianco e arancione. Una siepe di pini bassi e di cespugli ci impediva la vista del mare. Intorno a noi il canto monotono e alto delle cicale, lo schiocco rapido di una pigna che si apriva per lasciar cadere i semi alati nel vento. Il silenzio continuava fra noi. Eravamo gentili, ci preoccupavamo reciprocamente del nostro benessere. Ci tenevamo per mano senza baciarci. I giorni passavano. Poi è venuta la pioggia. All'ultima giornata di vento è seguita la notte del primo temporale. Al buio, nel mio letto, vedevo le fessure delle persiane accendersi di lampi, sentivo il tuono rombare sulle pinete, poi lo scroscio secco, frustante della pioggia sul tetto, sulla terrazza, sulla strada lastricata di ciottoli.

All'alba la pioggia era cessata. Il paese, le pinete, erano avvolti nella nebbia sottile, fumigante che saliva a ondate dal mare. Era un mondo nuovo, grigio e verde, tenero, silenzioso.

Dopo colazione abbiamo indossato i pullovers di lana, poi siamo usciti a vedere i cambiamenti che il temporale aveva apportato.

Il giardino era pieno di foglie strappate, di frutti maturati e caduti anzitempo. Sotto la vite i grani d'uva ancora verdi, ma già pieni, spaccati dalla grandine.

Dove erano passati i rivoli d'acqua la terra era liscia, pulita, compatta; dove l'acqua aveva trovato ostacoli c'erano mucchietti di erbe, di pagliuzze, di foglie.

Le pietre della strada luccicavano umide.

Sul paese la nebbia si era quasi diradata intrattenendosi solo nei vicoli più profondi, ma le pinete ne fumavano ancora.

 Tenendoci per mano abbiamo attraversato il sentiero giallo, ostruito qui e là da mucchi rugginosi di aghi di pino, che l'acqua aveva trascinato in pendenza, ridendo e scuotendo i capelli e le spalle se un albero ci scrollava addosso le ultime gocce di pioggia.

Nel folto della pineta il riso ci è svanito dalle labbra. Penetravamo in un mondo ovattato. La nebbia veniva su a folate, scavalcava le cime dei pini, si insinuava fra i tronchi umidi, stillanti di resina, si disperdeva a brandelli tra i cespugli del sottobosco. Intorno a noi profumo d i terra dissetata, di incenso e l'umido alito dei pini bagnati.

Hai cercato una pietra grande, grigia, che affiorava dal suolo e ti sei seduto prendendomi sulle ginocchia perché non mi bagnassi.

«Hai freddo, querida?».

«No, così vicino a te».

Attraverso gli indumenti di lana sentivo il calore del tuo corpo. Mi cullavi come una bambina. Stavo tra le tue braccia finalmente abbandonata, il capo sulla tua spalla, la tua mano che mi accarezzava la schiena. Il fiume mormorante delle tue parole tra i miei capelli.

«Mi querida, mi amor. Nina».

«Oh Gabriel, ti amo tanto. Gabriel».

 

A sera, dopo cena, la mamma era già salita, mi hai preso per mano dopo che ti avevo dato il bacio della buona notte.

«Stai ancora un po' qui con me» hai detto sdraiandoti vestito sul letto e facendomi posto.

Mi sono messa accanto a te come tante volte era accaduto a Parigi.

Hai spento la luce e nella stanza buia è rimasto il debole chiarore del lampione davanti alla finestra, che filtrava da sotto le persiane.

Si distinguevano i profili scuri dei mobili.

Hai cominciato a baciarmi, dolcemente, accarezzandomi il volto e il capo, le spalle e le braccia nude. La tua bocca era calda come mai l'avevo sentita.

«Gabriel, no. Gabriel».

 

Avevi aperto la cerniera dei miei jeans, la tua mano si insinuava, sfiorava i miei fianchi brucianti. Mi lamentavo debolmente senza più reagire. Affascinata, protetta dal buio, grata per il buio.

Seguivo sul mio corpo il percorso della tua mano, sul ventre liscio e giù fino al pube arcuato, fino a che il tuo dito ha incontrato il rilievo di carne umida, tenera, che ha avuto uno spasimo al primo tocco.

«Non aver paura. Baciami».

Sentivo il tuo dito muoversi, premere, imprimere sulla carne un ritmo dapprima lento, poi via via più svelto e la carne stessa inturgidirsi e trasudare umore e il mio corpo, che ormai non, più mio, danzare a quel ritmo. Le anche alzarsi e abbassarsi e abbandonarsi e premere contro la tua mano e non ero io che le muovevo e il mio respiro che si faceva sibilante nella gola e nel petto non era più mio, e poi finalmente arresa, grata, gioiosa, atterrita, inarcata fino allo spasimo contro di te e "Gabriel, no, Gabriel mi uccidi", e sprofondare nel buio e risorgere e morire e rinascere nei palpiti lenti della carne, nei palpiti frenetici della mia carne nel sudore del mio corpo che si apriva, si chiudeva, a dare, a ricevere, a offrire, a chiedere, imperioso e umile, grato.

E infine l'estremo guizzo, l'abbattersi contro di te, l'ansimare, roco contro il tuo viso, l'ultimo pulsare e la quiete della carne sotto la tua mano, ma non ancora nel ricordo, e il gemere «Gabriel, Gabriel, Gabriel».

«È la prima volta, querida?».

«Sì. Ma tu?».

«Ora non importa». .

Mi ricomponevi e mi baciavi. Ero abbandonata contro di annullata in un'altra dimensione.

Era questo, dunque. Così avveniva. Lo stupore del mio cor non era ancora svanito.

Me ne sono andata, piano, al buio.

 

Camminavamo lungo la strada asfaltata che attraversava boschi. Andavamo lentamente, pigri nel calore estivo che il giorno domenicale ci aveva restituito.

Il nastro d'asfalto sembrava quasi blu, tra l'acceso rosso ruggine degli aghi dei pini, respinti ai due lati della strada dal passaggio delle automobili. Il verde tenero delle felci nel sottobosco creava una barriera folta dalla quale emergevano i tronchi grigi e scagliosi.

«È così che succede nell'amore?» ti chiedevo.

«Oh, credo che sia qualcosa di più quando si fa in due. Certamente. Si deve provare molto di più. Che effetto ti ha fatto?».

«Non so. Ricordo che ti ho detto che mi uccidevi. Era come sprofondare. Sì. E non potevo farci niente, perché era una cosa che non dipendeva da me. Avveniva ed io non potevo farci niente, ma era bellissimo sentirla accadere».

«Davvero non avevi mai "provato" prima?».

«No. Solo nei sogni, ogni tanto. Svegliandomi avevo la sensazione che mi fosse accaduto qualcosa di piacevole. Mi sentivo distesa, rilassata, poi ricordavo confusamente, ma appena messi i piedi fuori dal letto non ci pensavo più. Non ho mai pensato che potesse accadere da svegli, in questo modo, né ho mai fantasticato che cosa fosse l'amore fra due persone. Quello fisico, voglio dire. Ora capisco meglio certi passi di libri che ho letto».

«Che cosa hai sentito dentro?».

«Non saprei dire con esattezza. Quando è giunto il culmine è stato come se la parte più interna della mia carne fosse una ventosa. Sentivo pulsare, palpitare ed era come se volesse succhiare, tirare avidamente qualcosa. E c'era un punto caldo, bruciante».

«Il piacere in un uomo è diverso» hai detto tu meditabondo e poi, improvviso: «Non ti sei mai masturbata?».

«No».

Ti guardavo stupita:

«Come può una donna? Credevo che solo gli uomini...». Hai riso:

«Può anche una donna, facendo da sola quello che ti ho fatto io».

«Ma con te è diverso. Prima ci sono stati i baci e ti ero così vicina e io non ho fatto niente. Quando ero sola non ho mai pensato... Anche dopo che ho conosciuto re ed ero lontana. A volte ti pensavo e volevo tanto stringerti e baciarti e stare tra le tue braccia. Ma non sapevo che potesse essere anche così. E tu?».

«Io ho cominciato presto, da ragazzo. Sai, in campagna è molto facile. Si va tutti insieme a fare scorribande nei boschi, tra amici.

C'è sempre uno più grande ed esperto che poi insegna agli altri.

Però io non mi sono mai fatto toccare da nessuno. Avevo visto. Poi ho provato da solo. L'ho fatto sempre da solo. Più tardi l'ho fatto, talvolta, dopo essere uscito con una ragazza o dopo che ero stato a ballare. Sai che la mia prima volta "vera" è stata a Parigi, con le prostitute».

«Sì, sì».

Tacevo meditabonda, un po' rigida nei passi.

Pensavo agli anni della mia adolescenza imbrigliata, guidata, repressa dalla severa educazione religiosa. Pensavo che non solo ero arrivata al controllo completo del mio corpo, ma perfino a quello dell'inconscio.

A volte ero stata in grado di bloccare il piacere al suo primo insorgere nei sogni e il risveglio mi coglieva rotta, indolenzita, come dopo una lotta corpo a corpo con qualcuno. Avvertivo inconsciamente, però, che grazie a quegli anni solitari, in cui altri interessi non meno entusiasmanti avevano assorbito la mia attenzione, avevo ora in serbo una ricchezza di emozioni, di vitalità e di energie dirompenti cui il mio corpo poteva attingere per i suoi bisogni d'amore con un entusiasmo sempre nuovo.

«Gabriel» ti ho detto. «Ma l'amore, quello vero tra marito e moglie, non è soltanto questo, vero? Deve essere qualcosa di più. Riusciresti a dirmi che mi ami, senza usare parole, mentre si fa l'amore?».

«Che bambina sei! Ma sì, quando saremo sposati sarà diverso. Ci ameremo. Ti darò tanto amore. Però a volte l'uomo è come "loco" sai? È la sua parte animale. Desidera solo un corpo e il piacere».

Scuotevo la testa.

«Io non lo farò se non sentirò di amarti in quel momento». Tu mi guardavi e sorridevi come un adulto può sorridere dei discorsi di un bambino.

Intanto avevamo lasciato la strada asfaltata per un sentiero che saliva verso la parte alta dei boschi e che ben presto finiva di essere un sentiero per perdersi tra le rocce grigie che affioravano tra gli alberi.

Non eravamo mai andati da quella parte, ma la pineta solita, invasa dai gitanti domenicali, ci aveva infastidito. «Guarda Gabriel!».

Levando lo sguardo alle cime degli alberi anche tu hai scorto la strana costruzione sospesa tra i rami.

Era a forma di triangolo e poggiava su tre pini.

Una scaletta di rami recisi, inchiodati al tronco del primo albero portava fin lassù.

«Che cos'è?»

«Deve essere un appostamento per la caccia. Ho sentito dire che in autunno passano da qui gli stormi di anatre dirette a sud. Ci arrampichiamo? ».

«Può essere pericoloso. Forse è abbandonato da tempo e il legno è marcio».

«Oh, proviamo».

Mi eccitava l'idea di sparire lassù, tra i rami. Tu eri molto bravo ad arrampicarti, ma io non ero mai riuscita a scalare un pino.

«Va bene, però lasciami andare per primo».

Affondando fino al petto nel sottobosco ci siamo avvicinati alla scaletta.

«Sembra solida» hai detto saggiando i legni. «Sù, dai!».

Con precauzione hai cominciato ad arrampicarti ed io ti ho seguito senza esitare. Calzavamo tutti e due scarpe di tela con la suola di corda.

Tu avevi già scavalcato il parapetto di tronchi e mi porgevi la mano per aiutarmi. Non senza difficoltà sono riuscita ad entrare nella strana navicella.

«Che bello Gabriel! Sembra un nido qui».

Eravamo letteralmente spariti tra le cime dei pini. La costruzione si mimetizzava tra i rami. Aghi pungenti e pigne spandevano intorno un grato profumo di resina. Il pavimento era fatto di tavole di pino piallate rozzamente, intorno i parapetti erano rami abbastanza grossi inchiodati in modo da lasciare appena qualche fessura tra le cortecce irregolari e ci arrivavano quasi al petto.

«Che bello, guarda!».

Reggendomi ai legni avanzavo verso l'angolo estremo, che si protendeva come la prua di una barca verso il vuoto.

La costruzione vibrava leggermente sotto i nostri piedi, ma le tavole risultavano solide ed elastiche.

Da lassù potevamo dominare tutte le pinete circostanti e di fronte la vasta distesa del mare aperto. Il sole era rosso e infuocato, ad un'ora dal tramonto.

«Sì, è molto bello» hai detto dopo un'occhiata circolare. «Come si respira bene qui!».

Ti sei tolto le scarpe e hai arrotolato lo spesso pullover di lana marrone, che portavi legato attorno ai fianchi, facendone un cuscino. Con un sospiro di beatitudine ti sei allungato sul pavimento.

L'appostamento poteva contenere benissimo tre uomini accovacciati e due potevano starci comodamente distesi. Doveva. essere eccitante spiare lo spuntare dell'alba tra le connessure dei tronchi e sentire il vento fresco che portava gli stormi. Peccato per le anatre, però.

«Clara vieni, stenditi anche tu».

Ti avevo dimenticato per un attimo.

Sono scivolata accanto a te sulle tavole, appoggiando il capo sul braccio che avevi disteso per accogliermi.

«Sembra proprio un nido qui» hai detto avvicinando il viso al mio, «e noi siamo due uccellini innamorati».

Ho riso sotto il tuo bacio, ma tu già con forza mi spingevi la lingua tra le labbra fino a che, arresa, ti ho stretto il capo e il volto tra le mani.

Quando ci siamo staccati eravamo un po' ansanti. «Sai una cosa?» ho sussurrato.

«Sì?».

«Dopo che è successo. Sai. Quella cosa. Dopo che è successa, ora ogni volta che mi baci così sento come un fiume caldo dentro. Come un liquido caldo che scende. Lì».

«Lo so. Vuol dire che il tuo corpo si prepara per l'amore». «Come?».

«Quel liquido scende a bagnarti e così l'uomo può entrare più facilmente e scivolare dentro di te senza farti male». «Oh, è così?».

«Sì. Sai, quando una donna non è disposta le cose sono più difficili».

«A me è sufficiente che mi baci in un certo modo. Sento subito quella goccia rovente che mi solca dentro» ti ho detto orgogliosa.

«Quando saremo sposati vuol dire che faremo l'amore molto bene».

«Credi che saprò farlo bene? Mi insegnerai. Forse le prime volte dovrai avere molta pazienza, perché non so niente».

«Impareremo insieme. Sarà molto bello imparare insieme».

Eri di nuovo su di me e mi baciavi piano piano cercando i punti morbidi della gola, alitandomi sul seno, che con dita delicate mettevi a nudo.

Dopo tanti giorni il piccolo capezzolo fioriva di rosso sotto le tue labbra.

«Vuoi ancora? E anch'io con te?».

«Sì, sì, sì».

Nella piccola navicella, al riparo tra i rami, il mio corpo si apriva alle tue carezze. Giacevo ad occhi chiusi e sentivo le tue mani sul mio ventre teso, i jeans che scivolavano lungo le cosce, i fianchi che premevano sul tavolato duro.

All'improvviso il tuo volto non era più sopra di me, ti stavi capovolgendo facendo oscillare tutta la costruzione. Sdraiato a testa in giù mi abbracciavi i fianchi, le tue labbra sfioravano il mio ombelico, e poi il tuo volto scendeva sempre più giù, la bocca e il naso premendo, solcando il pube. Le mani febbrili aprivano le cosce, là dove la pelle era più liscia e la carne morbida, e il tuo volto vi affondava in un alitare rovente.

Perché anche questa volta era sorpresa e aspettazione e stupore che potesse esserci qualcosa di più che non avessi saputo dalla prima volta.

Quando la lingua calda ha cercato, ha trovato, è penetrata saettando, e la carne stillante, bruciante, ha risposto frenetica, ho gridato.

Un grido soffocato, rantolante, che ha accompagnato lo sbattere dei miei fianchi sul legno ruvido.

E così, sì, sì, così fino allo spasimo, aprendomi, offrendomi, spingendo perché penetrassi di più e ancora, là dove c'era l'ultima cosa che dovessi conoscere di me, là dove, finalmente lo sapevo, ti avrei accolto il giorno che lo avessimo voluto.

Tornavi ora col corpo e il volto nella primitiva posizione e il tuo viso vicino al mio, umido del mio umore, che sapeva del mio odore, dell'odore di donna, ha alitato sopra di me senza sfiorarmi.

«Deja que me amojo un poco».

«No, Gabriel».

«Non succederà niente».

«No, no».

Serravo le gambe ora.

Ma non c'era bisogno che ti umettassi al vapore del mio corpo. Erta, imperiosa, rossa, la tua carne tremava, anelava al culmine del piacere.

Prima che ti abbattessi per l'ultima volta sul mio ventre nudo lo sperma è uscito spumeggiante, bagnandomi il fianco di una colata ampia.

Questa volta era bastato il ritmo delle tue reni impazzite contro le mie. Non avevi dovuto toccarti con le mani.

Prima di ricomporci siamo rimasti a lungo vicini, immobili come morti, paghi di comunicare solo attraverso il calore dei nostri corpi.

«Sai che sei molto liscia. lì tra le cosce?» hai detto poi trasognato.

Finivamo di riassettarci gli indumenti. Mi avevi asciugata col tuo fazzoletto.

Sono tornata alla punta estrema dell'appostamento.

Il sole era al tramonto. Cielo di fuoco rosso su un mare di acque incendiate e boschi verdi e oro.

Ho girato il viso a cercarti: giacevi, ricomposto e supino, sul tavolato. Poi ho sentito che ti alzavi.

«A cosa pensa questa romantica ragazza italiana?» hai detto nella mia lingua.

Sei venuto ad appoggiarti un po' sui tronchi guardando giù senza toccarmi.

Con un ultimo guizzo il sole è scomparso in mare lasciandomi barbagli negli occhi.

 

La tua vacanza era finita ed eravamo tornati a casa mia per un giorno. Il treno per Parigi partiva verso sera. La tua valigia era quasi pronta, semiaperta in attesa delle ultime cose.

Avevi voluto fare il giro delle stanze per ricordare bene tutti i particolari. Nella mia camera avevi sfiorato il piccolo tavolo-scrivania sul quale scrivevo le lettere per te, davanti alla finestra spalancata sul minuscolo giardinetto con i due alberi d'arancio.

Avevi anche voluto che conservassi io tutte le nostre lettere e le abbiamo sistemate in una scatola che abbiamo chiuso a chiave in uno scomparto del mio armadio-libreria. Hai ascoltato ancora qualche disco e "Strangers in the Night". Dalla terrazza hai dato un'ultima occhiata al mare.

«Ora potrò immaginarti nella tua casa, quando sarò a Parigi» hai detto.

Eri di nuovo un po' nervoso come la prima sera che sei arrivato. A pranzo hai mangiato poco, nonostante ti avessi preparato qualcosa di speciale e la crema al cioccolato che ti piaceva tanto.

Nel pomeriggio sei venuto nella camera grande, perché non riuscivi a fare il tuo sonnellino come al solito. Io avevo dormito un po'.

Ti sei seduto in fondo al mio letto dopo aver spalancato le persiane.

«Sai, Gabriel» ti ho detto «non ti ho ancora fatto vedere le foto di famiglia: c'è tutta la mia vita fino a quando ti ho conosciuto. Ti piacerebbe vederle?».

«Sí, con mucho gusto».

Eri felice che ti avessi trovato un passatempo.

Sono andata a prendere il vecchio album in finta pelle e mi sono risistemata sul. letto. Era un album un po' sciupato: cominciava con le foto dei miei genitori, giovani sposi, e proseguiva con quelle dell'infanzia mia e di mio fratello.

«Tuo padre era un bell'uomo» hai detto.

«Si, vedi, alto e snello e biondo con gli occhi azzurri, diverso da mia madre, così piccola e bruna».

Hai rivisto le copie delle mie foto di bambina che ti avevo spedito a Parigi e poi avanti, avanti, quelle di scolaretta, e nel giardino della casa di campagna dove ero nata e quelle del mare e in montagna, mentre gli anni passavano.

Già ero un'adolescente, e poi con le amiche e le compagne di scuola e infine hai visto le foto di alcuni ragazzi.

«Chi sono?» hai chiesto rabbuiandoti in volto.

«Questo è il "profesor", come lo chiami tu, l'istitutore di mio fratello al collegio».

«Il tuo amore dei sedici anni?».

 

 

 

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Ultimo aggiornamento: 26-11-05