Progetto restauro mulino

10-06-12

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IL  MULINO  A  VENTO  DI  CAMPIGLIA  E  QUELLI  DI  PORTOVENERE.

 

Nell’anno accademico 1996-1997, due laureandi in Architettura (indirizzo in progettazione dell’Architettura), Francesco Moscatelli e Francesco Musetti, presso l’Università di Firenze, hanno presentato una tesi molto interessante dal titolo:

"Proposta di restauro statico e conservativo di tre manufatti (un tempo mulini a vento)  nelle Cinque Terre".

Il loro lavoro molto ampio e articolato, comprendente tra l’altro ricerche storiche ed archeologiche sui luoghi, si è sviluppato con l’intento finale del recupero delle costruzioni (due a Portovenere e una presso Campiglia), dettagliando le modalità tecniche e realizzative per un definitivo ripristino di questi antichi mulini a vento. Data la vastità e completezza della tesi, solamente una piccola parte di questa viene qui trascritta rimandando chi volesse approfondimenti all’originale del testo.

PREMESSA

Il tema della nostra ricerca che ha per oggetto tre manufatti di forma cilindrica siti nel cuore delle Cinque Terre; manufatti un tempo mulini a vento oggi ridotti allo stato di rudere per colpa in parte del trascorrere inevitabile del tempo ed in parte dall’incuria evitabile dell’uomo con il risultato, sempre più probabile di cancellare per sempre uno dei sistemi più interessanti e allo stesso tempo "misteriosi" di questo territorio. Scopo del nostro lavoro è quello di dare un futuro a questi manufatti mediante interventi di consolidamento e di conservazione, un presente attraverso un riuso idoneo alle prestazioni e ai "valori" degli edifici, un passato dando "input" di ricerca archivistica, architettonica e archeologica che possano dare certezze storiche a un sistema ancora misterioso. Saremmo felici se questo nostro lavoro, oltre a suscitare curiosità ed interesse tra la gente, producesse nella Pubblica Amministrazione l’attenzione che, a parer nostro, questi manufatti meritano.

LINEAMENTI GENERALI DEL TERRITORIO

Il territorio delle Cinque Terre, sito nell’estremo levante dell’arco ligure, è compreso tra il mare ed il crinale che da Punta Mesco sale inizialmente al monte Crocettola per correre più o meno parallelamente alla costa fino all’altezza del Capo di Montenegro. Questo spartiacque separa l’area costiera del bacino della media Val di Vara e prosegue fino alla punta del Persico a delimitare il territorio di Tramonti. (Fig.1). La modesta distanza dello spartiacque dal mare, sempre inferiore a 4 Km, e la presenza di cime relativamente elevate fa si che il territorio sia ripido con pendenze progressivamente più marcate verso levante. I versanti sono scavati da solchi torrentizi che precipitano in mare ad originare le sottili spiagge che costellano il litorale. La portata dei corsi d’acqua, per lo più in secca, è molto modesta e si annulla soprattutto d’estate per riprendere, magari impetuosamente, con le prime piogge autunnali. La costa, alta e frastagliata, si sviluppa in maniera pressoché rettilinea per circa 40 Km; il mare non è riuscito a modellarla né ad inciderla profondamente laddove affiorano rocce più erodibili, perché la sua costituzione è geologicamente recente. Si ha così una successione di falesie vive nelle quali il mare ha scavato grotte e spiaggette formate da ciottoli, da sabbia o dall’accumulo di detriti sciolti franati dalle zone soprastanti.  Nei tratti di costa dove le incisioni torrentizie sono più profonde sorgono gli abitati più importanti come Monterosso al mare, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore. La maggior parte della popolazione vive concentrata nei centri citati ed in alcuni borghi collinari come Volastra, Groppo, San Bernardino, Vernazzola, Drignana e Campiglia; in ogni caso non oltre i 450 m sul livello del mare. Con frequenze sempre minori si trovano nuclei familiari che risiedono in abitazioni sparse; queste infatti, al pari dei coltivi, sono state abbandonate e solo in parte ristrutturate come seconde case. Il territorio di queste zone è in rapida e continua evoluzione: in pochi anni franano a mare ettari di terrazze; altre, poste in aree meno acclivi, vengono riguadagnate dall’uomo o più frequentemente dalla vegetazione naturale.

 

 

PRESENZA DELL'UOMO NELLE CINQUE TERRE

Preistoria

La presenza stabile dell'uomo nella zona è sicuramente molto antica e risale ad almeno 5000 anni fa; dell'Età del Bronzo (1800-900 a.C.) e probabilmente la via di comunicazione che si sviluppò tra crinale e mezza costa su parte del tracciato dove corre oggi la via dei Santuari. Non distanti da quella sono stati rinvenuti il lapis Terminalis ( una rozza stele conservata al Museo Civico di La Spezia) e Menhir del monte Volastra e di Tramonti avente probabilmente funzioni calendariali attribuiti ad una civiltà ligure autoctona.

I Romani

Sconfitte le popolazioni locali i romani occuparono le zone più favorevoli dello spezzino. Nell' Itinerarium Antonii Augusti del 161 a.C. si parla di Portum Veneris identificato dagli studiosi con Portovenere anche per le monete romane ritrovatevi e per le tracce di un antico tempio edificato dove oggi è sita la chiesa di San Pietro. Sicuramente i romani colonizzarono un' area limitrofa, come testimoniano con certezza i resti della villa del Varignano edificata tra l ’80 e l ’85 a.C. Si tratta di un complesso rustico residenziale al centro di un fundus collinare - marittimo che dalle insenature delle Grazie e del Varignano si estendeva fino al Muzzerone le cui pendici, dalle quali forse iniziava ad essere cavato il Portoro, erano tenute a bosco e a pascolo. Probabilmente le popolazioni liguri locali residue opposero una forte resistenza sia alla cultura sia all'economia degli invasori poco propensi ad espandersi nelle aree più acclivi e disagiate come questa, tanto da indurre i romani ad affiancare, nel III secolo d.C., alla strada costiera, la Via Aurelia Nuova che proseguiva la vecchia Via Aemilia Scauri (del 109 a.C.). ( Fig. 2 )

E' certo che i romani importarono nella zona la coltura dell'olivo, della vite, del castagno e del pino domestico attirando la popolazione dei monti e dell'interno verso le sue strutture costiere site in aree limitrofe. E' con i romani inoltre che abbiamo la prima testimonianza diretta intorno alla pesca, grazie al ritrovamento nella villa del Varignano di un amo in bronzo, un ago per tessere reti e disegni di attrezzi da pesca eseguiti su anfore.

Il Medioevo

Secondo gli esperti non si affermò e diffuse in maniera generalizzata la struttura del fundus, ma persistette impoverita l'antica circoscrizione preistorica ligure del conciliabolo che organizzava nuclei elementari di persone (vici) in una stessa tribù (pago) che faceva capo ad un luogo fisso (castellaro). Il conciliabolo sfumò nell'organizzazione della pieve, diretta dal piovano, figura religiosa, che diventa però importante riferimento in una situazione di vuoto di potere politico. Di questi periodi rimane, edificata sui resti di un antico tempio romano, una chiesa paleocristiana del IV-V secolo d.C. intorno alla quale fu eretta poi la chiesa di San Pietro di Portovenere. Del VI secolo sono il cenobio del Tinetto ed i resti della chiesa più antica del Tino, che si ipotizza contenesse reliquie di santi portati in salvo e custodite contro le aggressioni barbariche. La funzione dei monaci benedettini del Tino in quest’epoca è importante poiché favorì il conservarsi ed il diffondersi delle tecniche agrarie, il collegamento culturale tra i vari centri, lo scambio di informazioni, la diffusione in tutta l’area del cristianesimo. Il primo centro abitato delle Cinque Terre di cui si ha traccia è Soviore, come testimoniano le strutture ed i materiali impiegati nella costruzione dell’odierno santuario. I rapporti economici e giuridici che regolavano l’uso del pascolo, del terreno agrario e del bosco, secondo la vecchia economia federativa ligure del "compascuo", vennero soppiantate con l’affermazione delle colture di importazione romana e con la riorganizzazione delle strutture agrarie del "fundus". Questa organizzazione socio-economica si sviluppò con le corti medioevali, strutture indipendenti da quella religiosa della pieve. La Liguria orientale, intorno alla metà del X secolo, faceva parte della Marca Obertenga, originata dalla divisione della Liguria in tre marche operata da Berengario II. Grazie alla rarefazione delle incursioni dei Saraceni dal mare, all’interno affluirono verso la costa nuove popolazioni ed i nuclei di mezza costa divennero promotori degli insediamenti del litorale. Intorno al Mille gli abitanti di Soviore fondarono Monterosso alle pendici del colle San Cristoforo; gli abitanti di Reggio fondarono Vernazza alle spalle della sua rocca (castrum) che presidiava l’accesso al porticciolo naturale. Analogamente nei secoli successivi sorsero Manarola e Corniglia per opera degli abitanti di Volastra e, ultimo nella documentazione finora trovata, Riomaggiore. Le trasformazioni ambientali in questo periodo iniziarono ad essere consistenti. Si sviluppò la coltura della vite, con le prime e più primitive opere di terrazzamento dei terreni limitrofi al mare. Le viti, piantate tra la roccia, nel poco terreno contenuto nelle spaccature più grosse, venivano lasciate crescere prostrate; i soli grappoli, legati a paletti, erano sollevati dal suolo per poter meglio maturare.  Si diffuse la coltura del castagno e del pini marittimo. Le comunicazioni tra costa ed entroterra si accrebbero grazie allo sviluppo delle prime attività di pesca e di commercio.  Nel XII secolo i territori della Marca Obertenga furono dapprima suddivisi tra Malaspina ed Estensi e, successivamente, frantumati tra varie signorie. Nel 1113 la Repubblica di Genova costruì un fortilizio strategico sulla Punta di San Pietro a Portovenere e nel 1123 ottenne la soggezione canonica all’episcopato genovese del monastero di San Venerio. Pochi anni dopo Portovenere passò in proprietà dai signori di Vezzano alla Repubblica genovese, le cui magistrature urbanistiche ne pianificarono la costruzione come borgo fortificato, costituito da mura, castello, insediamenti religiosi, tra cui al chiesa di San Lorenzo iniziata nel 1116, e da abitazioni civili . Sotto i Genovesi iniziò quindi un periodo di notevole sviluppo, gli stessi erano molto abili a stringere alleanze commerciali; di allearsi ai ceti artigiani e mercantili consentendo loro una emancipazione giuridica ed economica favorendo con i suoi mezzi, con le tecnologie ed i capitali lo sviluppo di un sistema comunale alternativo al vecchio sistema feudale. Si sviluppano i porti ed i piccoli cantieri; uomini della zona studiavano, lavoravano e investivano capitali a Genova. Assunse sempre maggiore importanza la navigazione marittima. Sotto il dominio genovese i borghi delle Cinque Terre vennero fortificati più efficientemente e divennero sedi di pievi autonome; questo fenomeno portò alla costruzione delle diverse chiese parrocchiali nelle forme che possiamo ammirare oggi.

Dal Rinascimento ai giorni nostri

Alla fine del XV Secolo gli Aragonesi rasero al suolo Portovenere; la Repubblica, preoccupata della situazione generale, fece fortificare a più riprese la zona. Sorsero e si rafforzarono forti e mura dei borghi delle Cinque Terre, furono edificate le rocche di Corniglia e di Riomaggiore; il castello della risorta Portovenere venne condotto a termine nel XVI secolo e nel 1606 fu eretta alla Scuola, l’estremità orientale dell’isola Palmaria, la Torre di San Giovanni Battista. La decadenza della Repubblica si espresse anche nella mutata qualità dei rapporti che legavano Genova a questi territori. Tasse, gabelle, obblighi commerciali che rastrellavano le ricchezze prodotte (vino, olio, castagne, pesce ecc.), imposizioni relative all’importazione del frumento, al consumo e alla produzione di sale, alla pesca.  Nel Cinquecento venne introdotta la coltura dell’olivo, il cui prodotto fu in parte utilizzato per la conservazione del tonno. A partire dagli inizi del Cinquecento fu anche coltivato il gelso per produrre la seta, soppiantato poi, due secoli dopo, dalla coltura degli agrumi, in particolare i limoni, negli orti presso gli abitati, come testimoniano le carte redatte nel XVIII secolo redatte da Matteo Vinzoni. Lo sfruttamento del territorio con le attività agricole giunse fino alla raccolta del mirto direttamente dalla macchia e alla coltura del cappero nelle rupi a picco sul mare. Lo sviluppo demografico ed economico dell’epoca venne sconvolto fino alla fine del ‘700 da pestilenze, carestie e assalti da parte di pirati barbareschi. Nonostante questo nel 1773 le carte del Vinzoni ci mostrano come ormai gli abitati si siano sviluppati in una maniera molto simile all’odierna, con case fittamente addossate e una viabilità interna caratterizzata da ripidissime scalinate che collegano i vari livelli dei paesi. Questo periodo di inquietudine e di decadenza culmina nel 1797, con la caduta della Repubblica genovese e la sua successiva annessione al regno di Sardegna nel 1815. I successi dei Francesi contro gli Austriaci li indussero a pensare al Golfo di La Spezia come sede idonea per un proprio porto militare facendovi così gravare la vita economica e politica della zona. Nell’Ottocento la cessazione delle pestilenze, delle carestie, delle incursioni piratesche portò ad un boom demografico che fece raddoppiare la popolazione; le condizioni della popolazione erano comunque sempre molto difficili all’inizio del XIX Secolo le Cinque Terre raggiunsero il loro punto massimo di isolamento. Il tradizionalismo esasperato ed i bassissimi livelli culturali erano un ostacolo allo sviluppo sociale ed economico della zona. Le innovazioni tecnologiche nelle vita e nel lavoro quotidiano erano praticamente nulle; ognuno coltivava con la sola forza delle proprie braccia i piccoli appezzamenti di terreno distanziati anche di parecchio sul territorio con l’intento di minimizzare i rischi dovuti alle frane, grandinate od altre calamità che avrebbero potuto distruggere localmente l’intero raccolto di un proprietario. Se si eccettua Tramonti e l’area di Riomaggiore le attività produttive non erano però incentrate tutte sulla coltivazione della vite. Nei comuni di Vernazza e Monterosso era sviluppata l’olivicoltura e si aveva inoltre una modesta produzione di ortaggi e cereali. L’olivicoltura era l’attività dominante a Portovenere e nelle isole, integrata con l’attività di pesca e di cava, rilanciata quest’ultima agli inizi del Novecento con le nuove tecniche di taglio della pietra col filo elicoidale.  Con l’apertura dell’Arsenale di La Spezia nel 1869 e la costruzione della ferrovia che negli ultimi decenni del secolo collega Levanto e le Cinque Terre a La Spezia si ebbe un brusco cambiamento in tutta l’economia dell’area e nella mentalità dei suoi abitanti. La possibilità di lavorare in Arsenale o in una delle nascenti industrie pesanti militari ad esso legate offriva garanzia di un salario sicuro da aggiungere ai magri provenienti dall’agricoltura. Si forma, in particolare a cavallo dei due secoli, quando già numerosi pendolari lavorano a la Spezia, una nuova mentalità che trova espressione nel sorgere di società operanti a Monterosso e Riomaggiore e nella nascita di una nuova figura sociale: il contadino part-time. Dopo lo sconvolgimento portato dalla seconda guerra mondiale le Cinque Terre e Tramonti vedono un costante calo ed invecchiamento della popolazione, favorito indirettamente anche dal grande sviluppo del turismo che ha scoperto nel dopoguerra queste aree di eccezionale bellezza. La televisione ed il contatto diretto di quasi tutta la popolazione con la realtà italiana esterna ha fatto crescere in maniera vertiginosa il bisogno di infrastrutture e servizi che consentono livelli di vita che si possa chiamare civile, a partire da condizioni abitative accettabili. Oltre il 50% dei terreni coltivati è stato abbandonato nel dopoguerra e le occasioni occupazionali interne si limitano al settore turistico che non è però una fonte di reddito sicura e vede quindi occupata in prevalenza mano d’opera femminile. Il turismo si è accompagnato in passato ad uno sviluppo edilizio attuato senza il rispetto del patrimonio urbanistico esistente; soprattutto nel periodo successivo al boom economico, con la rottura dei diaframmi culturali che la separavano dal resto del paese, nelle Cinque Terre si è evoluta una mentalità che si fonda sulla rimozione di tutta la miseria e la fatica delle vecchie generazioni. Esistono conflitti tra chi vorrebbe andarsene ricavando il massimo profitto dalla vendita delle proprie proprietà ( rimodernate magari con i soldi dello stato e "valorizzate" con una capillare viabilità) e il turista che desidererebbe osservare una realtà mummificata grazie alla presenza e alla fatica altrui. Manca purtroppo una mediazione tra il miglioramento della vita dei singoli, la continuità delle tradizioni e la difesa dell’ambiente.

MULINI A VENTO NELLA STORIA

Dal mulino idraulico al mulino a vento

Il più rudimentale dei procedimenti per sfracellare il grano era a colpi di pietre usando la sola forza muscolare; l’invenzione di veri e propri utensili facilitarono questa operazione; il mortaio (fornito di pestello), il rullo di pietra e infine la macina girevole. Quest’ultimo strumento permetteva, per la prima volta, di sostituire nella molitura al lavoro umano quello degli animali, di solito asini e cavalli. La semplicità e regolarità del movimento di rotazione dettero luogo all’impiego di una forza che, più cieca ancora che la trazione animale, è, inoltre, per natura, orientata in direzione sempre uniforme: la spinta dell’acqua corrente. Il mulino idraulico più rudimentale era rappresentato dal tipo greco, denominato anche mulino scandinavo, dove un albero verticale portava all’estremità inferiore una piccola "ruota" orizzontale composta di un certo numero di pale. Il suo basso rendimento lo rendeva inadatto alla produzione commerciale della farina, e ciascun mulino serviva alle limitate esigenze di un singolo contadino. Le pietre erano piccole e giravano lentamente, compiendo l’intera rotazione una volta per ogni giro della ruota idraulica, per cui non riuscivano a macinare che modeste quantità di grano.  Poteva funzionare con piccoli volumi d’acqua a corrente rapida, comuni nelle zone montane.  Il mulino scandinavo ebbe probabilmente origine nelle zone montuose del vicino oriente, per poi diffondersi a occidente e oriente. Il mulino avrebbe avuto scarso effetto se un ingegnere romano del primo secolo a.C. non avesse avuto l’ispirazione di costruire il più efficiente mulino verticale o modello vitruviano. Sfruttando la sua conoscenza delle ruote dentate rudimentali, l’inventore trasformò il vecchio mulino greco in una macchina molto più utile: la ruota idraulica venne sistemata in posizione verticale. Per muovere le macine, il suo albero orizzontale era ingranato nell’albero verticale, che faceva girare la macina superiore. Nei mulini idraulici romani le macine facevano di solito cinque giri, contro uno della ruota. La maggior potenza di uscita compensava la maggior complessità costruttiva (Mulino Scandinavo).  Le popolazioni prive d’acqua non avevano altra risorsa se non quella di conservare gli antichi metodi di molitura. E questo almeno sino a quando la soluzione non fu data da un procedimento ancora più nuovo: il mulino a vento che, probabilmente mutato dal mondo arabo, apparve nell’occidente verso la fine del XXII secolo. Si aggiunga poi che tutti i corsi d’acqua non erano ugualmente adatti a far girare le ruote e che inoltre i più idonei non sfuggivano né alle gelate, né alle piene, né ai periodi di secca. Il primo mulino a vento vero e proprio è segnalato dall’Islam sotto Omar I, un persiano sosteneva di essere in grado di "costruire un mulino che viene fatto rotare dal vento", e quando egli confermò questa sua affermazione davanti al Califfo questi gli ordinò di costruirne uno. Sembra che ci sia una diretta relazione tra questo tipo di mulino ed il mulino greco o scandinavo. Pare che il mulino a vento fosse una modifica persiana del mulino greco, per adattarlo ad una regione povera d’acqua, ma ricca di venti costanti. L’ordine in cui i primi mulini a vento appaiono nei diversi paesi europei avvalorerebbero tale ipotesi. D’altro canto, la costruzione del mulino occidentale (dotato di quattro pale verticale collegate ad un albero orizzontale) è del tutto diversa da quella del mulino orientale. Così non sembra che esso derivi dal mulino idraulico greco e potrebbe aver avuto un’origine completamente diversa. Alcuni scrittori lo hanno fatto perciò derivare dal mulino idraulico vitruviano. Un costruttore di mulini che avesse avuto dimestichezza col mulino idraulico vitruviano avrebbe potuto costruire il meccanismo del mulino sul palo (primissima tipologia costruttiva), se avesse saputo come sagomare e rifare le pale per ottenere una reazione continua. In questo modo il vento premeva sempre sull’intera superficie della vela, a differenza di quello orientale nel quale era interessata soltanto parte di essa. Questo nuovo dispositivo aerodinamico costituì l’invenzione fondamentalmente nuova nel mulino a vento occidentale. La più antica menzione autentica di un mulino a vento nell’Europa occidentale finora scoperta risale al 1180 circa e appare in un documento in cui è registrata la donazione di un terreno presso un mulino a vento all’Abbazia di Saint Sauvère de Vicomte in Normandia. Nel secolo successivo abbiamo la prima illustrazione di un mulino a vento nella lettera iniziale di capoverso del  "salterio del mulino a vento" scritto a Canterbury nel 1270 circa. Essa mostra chiaramente un mulino su palo di costruzione classica che era, come si ha ragione di credere, una caratteristica del paesaggio familiare dell’arista. Nel 1237 si ha per la prima volta notizia di un mulino a vento italiano a Siena; nel 1337 un altro mulino è menzionato presso Venezia.

Tipologia e tecnologia del mulino a vento.

I primi disegni illustranti dettagli meccanici dei mulini a vento apparvero alla fine del sedicesimo secolo ; questi disegni, contenuti nel libro del Ramelli del 1588, rappresentano un netto progresso in confronto ai fantasiosi schizzi di macchine apparsi in precedenti pubblicazioni e possono essere considerati veri disegni costruttivi, contenendo sufficienti particolari per tutti i problemi di costruzione e di funzionamento. Tuttavia soltanto nel 1702 apparve una descrizione, contenuta nella seconda edizione di un’opera di Mathurin Jousse, abbastanza completa e dettagliata da rendere possibile la costruzione, in base ad essa, di mulini a vento. I primi mulini erano rozzi dispositivi che azionavano una sola coppia di palmenti; taluni avevano le fondazioni in una montagnola artificiale ed erano chiamati mulini a pilastro interrati. Il peso del mulino era sorretto dal pilastro verticale, che era posto alquanto in avanti rispetto alla linea centrale del mulino e poggiava su due travi orizzontali intersecantesi, sorrette alle loro estremità da piloni in mattoni o in pietra. Il peso veniva trasferito alle estremità delle travi, e quindi ai piloni mediante sostegni diagonali o puntoni. Il mulino sul palo era formato da una struttura scatolare di legno che portava la ruota a pale e conteneva il macchinario, sostenuta da un pilastro convenientemente rinforzato su cui poteva girare in modo da orientare le vele verso il vento. L’intera sottostruttura del mulino, inclusi il palo e i legni di supporto, era affondata nel terreno. Sembra che con questo si volesse evitare di far inclinare il mulino in avanti in caso di raffiche di vento da tergo. Si aveva però lo svantaggio che la sua altezza utile risultava diminuita, sicché era più difficile prendere il vento, mentre la costruzione era maggiormente soggetta a marcire. La rotazione della struttura del mulino completo di vele e macchine per l’orientamento nel senso del vento, richiedeva un notevole sforzo e non sorprende perciò che il mulino a torre sia rappresentato fin dal 1390. In questo tipo la torre di mattoni o di pietre contiene il macchinario e soltanto la sommità o coperchio porta le vele che sono orientate in maniera da disporsi verso il vento. Un’ulteriore motivo per la diffusione del mulino a torre sarebbe stato fornito dalla scarsezza di legname robusto adatto alla costruzione dei mulini su palo e dalla tendenza a costruire mulini a vento sulle torri dei castelli. In tale posizione un mulino su palo sarebbe stato più vulnerabile agli attacchi nemici che non un mulino a torre costruito in pietra. I più antichi mulini a torre si trovano oggi sulle coste del mediterraneo, nella penisola iberica ed in Bretagna. Le parti essenziali di un mulino di questo tipo sono la torre fissa e la calotta mobile che sovrasta e porta le pale. Per la costruzione della torre erano usati materiali sia locali sia di importazione, comprendenti oltre che mattoni e pietra anche legname. Le torri rotonde erano di solito rastremate, ossia presentavano una diminuzione di diametro dal basso verso l’alto. Ciò impediva che la torre si inclinasse e presentava il vantaggio di fornire maggiore spazio alla base dove era più necessario. In Francia e nei paesi dell’Europa meridionale, dove non si adottava questo accorgimento, i muri della torre erano proporzionalmente più larghi per reggere il peso della calotta e delle pale. Sulla sommità di tutte le torri c’era una pista o cordonato su cui girava la calotta che nei mulini primitivi era, ed è tutt’ora, di legno senza rivestimento; la calotta scorreva circolarmente su di esso mediante pattini di legno, rimanendo centrata per mezzo di analoghi pattini poggianti lateralmente sul cordonato. Nell’area mediterranea le calotte sono spesso girate dal di dentro per mezzo di un palo di ferro e una serie di fori intorno al cordonato. Le antiche pale erano telai piatti, inclinati ad angolo, su cui erano distese, oppure intrecciate fra le sbarre del telaio, delle tele. Vicino al mare, nella penisola iberica e ne mediterraneo orientale, si fece uso di vele triangolari, cioè fiocchi, per le quali non veniva preparato alcun telaio essendo i teli avvolti attorno a pali a raggiera; la quantità di vela richiesta è spiegata e attaccata alla punta del palo sporgente. Un bompresso si protende in avanti al centro e ad esso sono assicurate le punte dei pali che possono variare da otto a sedici. L’albero di trasmissione che regge le pale è posto alla sommità dell’incastellatura nei mulini a pilastro e nella calotta nei mulini a torre. L’albero è di regola inclinato verso l’alto di un angolo compreso fra 5 e 10 gradi, affinché le pale stiano lontane dalla parte inferiore del mulino. I primi alberi di trasmissione azionati dal vento erano di legno; l’estremità anteriore era soggetta a marcire e a questo inconveniente si ovviò solo quando furono introdotti gli alberi di ghisa. I costruttori di mulini erano falegnami versatili che all’occorrenza sapevano anche intelaiare e sistemare le campane delle chiese. I loro disegni, se mai ce ne furono, non ci sono pervenuti, ma è significativo che la prima descrizione tecnica di un mulino sia inclusa in un trattato di falegnameria pubblicato nel 1702. I costruttori si incaricavano, oltre che della costruzione del mulino, della sostituzione e riparazione delle pale, anche delle riparazioni del macchinario, con la fornitura ed il montaggio di nuovi cuscinetti, rinnovando i denti degli ingranaggi e aggiustando a volte le macine. Tuttavia la messa a punto di queste ultime era più spesso compiuta dal mugnaio, dal suo garzone o da uno scalpellino ambulante. Il costruttore di mulini, se non era un fabbro lui stesso, si serviva dell’opera di uno di questi artigiani, lasciando il lavoro in muratura con mattoni o pietra ad altri; spesso i mattoni erano di costruzione locale e la pietra veniva estratta nelle vicinanze. A La Spezia ove attualmente si trova la Capitaneria di Porto, anticamente si trovava un mulino a vento in pietra, abbattuto agli inizi del novecento per far posto al porto mercantile.  La memoria di questo edificio si è tramandata nel secolo attraverso i dipinti del pittore spezzino Agostino Fossati che ci dà una visione alquanto realistica di questo manufatto, già ridotto a rudere alla metà dell’Ottocento. Prima fonte al riguardo del "torretto" la troviamo in una carta del 1748 disegnata da Pietro De Cotte, "Plan de la Spetie et des nouvelles fortification" dove il manufatto viene definito come "ancienne tour d’un mulin a vent". L’ipotesi formulata dal Dott. Giuseppe Fasoli circa l’esistenza di altri mulini a vento nel Golfo potrebbe risultare veritiera (Fasoli 1985); certo è che allo stato attuale questi manufatti risultano ridotti allo stato di rudere magari nascosti da ramaglie di rovi e conosciuti soltanto dai proprietari dei terreni i quali sono portati a pensare che quelle strutture di pietra a forma di torre che hanno davanti agli occhi siano state fortificazioni.  Il fatto che ci possa essere un sistema puntiforme nel territorio ci è confermato dall’esistenza di altri due mulini a vento situati nel borgo di Portovenere. Una delle due strutture cilindriche ancora esistenti all’esterno del castello di Portovenere presenta sull’architrave del portale d’ingresso una scritta che ci permette di datarlo al 1582. La fine del Cinquecento è per Portovenere un periodo di vivacità costruttiva in seguito alle ferite provocate dal bombardamento Aragonese del 1494, in particolare la ristrutturazione delle chiese di S. Pietro e S. Lorenzo e la costruzione della nuova cerchia muraria del castello.

Materiali e tecniche costruttive

Nei manufatti oggetto di studio si ritrovano impiegate le pietre reperibili in loco e cioè dolomia, calcare e arenaria. Mentre nei mulini a Portovenere sono utilizzate quasi elusivamente le prime due, nel mulino a Campiglia troviamo anche la terza. Il calcare è presente in diverse colorazioni che vanno dal grigio chiaro sino ad arrivare al nero; questo fatto ci ha tratto inizialmente in inganno tanto da farci pensare a rocce diverse costituito prevalentemente da carbonato di calcio, CaCO assume diverse colorazioni a seconda della presenza più o meno accentuata di pigmenti organici. Le tecniche costruttive adottate sono simili in tutti i tre manufatti; lo spessore dei muri è pressoché costante pari a poco più di 1,00 metro; da indagini effettuate in più punti si è riscontrato il fatto che i muri perimetrali non sono stati costruiti con la tecnica detta "a secco", come avevamo erroneamente ipotizzato in un primo tempo; le pietre risultano ben legate tra loro.

Materiali impiegati

Come detto le pietre utilizzate sono quelle facilmente reperibili nella zona; analizziamole ora una alla volta descrivendone l’origine, le caratteristiche meccaniche e il loro impiego in cantiere.

Dolomia

E’ una roccia sedimentaria, quindi caratterizzata da una stratificazione parallela di superficie formata da sedimenti cartonatici depositati in ambiente lagunare in cui si verificavano periodicamente cicli di emersione (comprende la zona di influenza delle maree). La profonda dolomitizzazione di questi sedimenti ed i processi di ricristallizazione metamorfica hanno spesso cancellato le strutture sedimentarie; ne risultano quindi microstrutture saccaroidi e talvolta un aspetto brecciato; tuttavia possono essere riconoscibili impronte fossili. La dolomia è costituita da dolomite (carbonato doppio di calcio e magnesio CaMg(CO3)2) in percentuale preponderante e da calcite (carbonato di calcio CaCO3) subordinata.

Calcare

Il termine calcare sta ad indicare una roccia sedimentaria costituita prevalentemente da calcite (carbonato di calcio CaCO3); nella fattispecie il calcare è detto "Rhaetavicula contorta" per la presenza di questo fossile caratteristico. Questi calcari sono costituiti da calcari talvolta marnosi, ricchi cioè di marna, di colorazione grigio scura, più chiara sulle superfici esposte, in strati regolari dello spessore di qualche (1-10) decimetro; la colorazione è dovuta alla presenza di pigmenti organici. Si tratta in prevalenza di depositi di fanghi calcarei micriti talvolta fossiliferi deposti in un ambiente marino mediamente profondo e con acque calme che ha favoritola conservazione delle sostanze organiche.

Arenaria

Le arenarie sono rocce costituite da sabbie consolidate e cementate; nel nostro caso abbiamo l’arenaria-macigno. Si tratta della formazione che caratterizza maggiormente le Cinque Terre; il macigno è costituito da arenarie a grana media-grossolana, grigio-azzurre al taglio, ocracee se alterate, che si rinvengono in spesse bancate alternate da livelli di spessore molto variabile di siltiti grigio scuro, scagliose e di argilliti nerastre. Vi compaiono inoltre arenarie grossolane e conglomerati fini; livelli marnosi e siltosi ed infine straterelli di calcareniti e di arenarie calcaree.

Cave di provenienza

Nel territorio sono presenti numerose cave, oggi in stato di abbandono; percorrendo il sentiero che da Portovenere conduce a Campiglia e poi alle Cinque Terre, è facile scorgere tra la vegetazione piccoli spiazzi (piazzale di cava) dove venivano depositati e talvolta sottoposti ad una prima lavorazione i blocchi estratti. Pensiamo però che queste cave servissero per estrarre la pietra necessaria per la costruzione dei muretti a secco; è infatti improbabile che, con la disponibilità di pietra nelle immediate vicinanze dei mulini; gli uomini del tempo la cavassero così lontano; il fatto poi che queste cave siano numerose e di piccole dimensioni, sta a testimoniare la necessità di avere disponibile la pietra in più siti. Da attente osservazioni abbiamo notato che l’arenaria del mulino di Campiglia è quella estratta direttamente nella zona dagli spessi strati emergenti o anche da rocce qua e là affioranti nel terreno.

Tecniche costruttive

Sia gli abitanti di Portovenere che quelli di Campiglia sono stati in passato abili costruttori; il territorio è infatti disseminato di muretti a secco che servivano, e in alcuni casi servono tutt’ora, per consentire la coltivazione della vite; si trattava di mettere una sull’altra pietre pesantissime e difficili da maneggiare, per ricavare sbarramenti artificiali riempiti poi di terra, portata lì da qualche altro luogo, anche lontano, magari da dove si stava sbancando il terreno per edificare una cantina o un casotto. Un lavoro ciclopico (migliaia di metri cubi di muretti a secco) di cui è assai problematico indicare l’inizio; sicuramente estesosi dopo la fine delle incursioni saracene che imperversavano sulla costa, comunque antico e mai completato una volta per tutte. I pendii scoscesi da sempre sono stati interessati da smottamenti e frane; erano quindi frequenti opere di ricostruzione, di contenimento. Questa necessità ha fatto si che la tecnica della costruzione dei muretti a secco venisse tramandata di padre in figlio, almeno fino a qualche tempo fa. A prima vista nell’osservare un muretto, ma più in generale un paramento murario, non si scorge niente di particolare. Quello che può colpire è il carattere di apparente precarietà che sembra contraddistinguerlo; in effetti il susseguirsi di pietre di forma diversa messe le une sulle altre può sembrare casuale. Nei fatti, invece, ogni pietra, anche la più piccola, ha una sua precisa funzione e concorre, al pari delle altre di qualsiasi dimensione, a determinare lo scopo del costruttore: assicurare a quell’opera così faticosa la massima longevità.  Il paramento murario dei mulini oggetto di studio non si discosta molto da quello dei muretti a secco: in entrambi i casi si trattava di costruire una muratura con le pietre disponibili nel luogo; cero, nella costruzione dei manufatti, dovendo costruire una muratura alta anche cinque metri erano necessari ponteggi di legno; sui paramenti murari esterni di tutti e tre i mulini sono ancora visibili le buche dette appunto "pontate" che soltanto in alcuni casi sono state chiuse, probabilmente con l’intonacatura della muratura.

DESTINAZIONE D’USO PREVISTA

Proposta di intervento a scala territoriale

L’ecomuseo è in principal modo un’istituzione che in questo caso occorrerebbe all’interno dell’Ente Parco Cinque Terre che si occupa di studiare, conservare, valorizzare e presentare la memoria collettiva globale della comunità. Per spiegare meglio ci sembra efficace la definizione di Gorge Henri Riviere, il padre degli ecomusei in Francia: "E’ uno specchio dove la popolazione si guarda, per riconoscersi in esso, dove cerca spiegazioni del territorio al quale è legata, unite a quelle delle popolazioni che l’hanno precedute, nella discontinuità o nella continuità delle generazioni". Esigenza sentita in maniera particolare in questo territorio come dimostra la nascita di molte associazioni:  "Associazione Campiglia, Vivere Tramonti, Associazione per Tramonti", con la voglia di conoscere, attraverso convegni e incontri. Il nostro progetto non vuole inventare nulla di nuovo, vuole solo proseguire questa strada, infatti gli abitanti sono invitati a partecipare a tutte le fasi dell’ecomuseo: alla sua prefigurazione, alla realizzazione e a tutte le attività. Inoltre le scuole, le associazioni locali, i gruppi spontanei, i singoli studiosi e chiunque interessato possono partecipare alle attività di inventario, collezione, salvaguardia, esposizione, ricerca .

( Mulino di Campiglia )

L’ecomuseo è quindi un organismo che pur rivolgendosi ad un pubblico esterno, ha come interlocutori principali gli abitanti delle comunità che si vogliono trasformare da visitatori passivi in fruitori attivi. In particolare il nostro ecomuseo è un museo all’aperto che comprende il territorio lungo lo spartiacque che va da Campiglia a Portovenere (circa 10 Kmq. Di superficie). E’ formato dai borghi di Portovenere, Campiglia, Schiara, Monesteroli, Fossola, allineati dal percorso "rosso" che da Portovenere conduce fino a Levanto e da itinerari che, attraversando il territorio, ne evidenziano aspetti particolari "un museo dello spazio, di spazi privilegiati dove sostare o camminare".

Il lavoro viene condotto in quattro direzioni principali: 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 1.  Storia, architettura e urbanistica

 2.  Natura e ambiente

 3.  Uso della pietra

 4. Tradizioni popolari     

Gli argomenti sopraccitati troveranno alloggio nei quattro elementi caratterizzanti il progetto, cioè i tre mulini a vento e il percorso stesso che li unisce. Il primo tema cioè "storia, architettura e urbanistica" sarà insediato nel borgo di Portovenere ed in uno dei due mulini a vento del borgo; il tema "natura e ambiente" nel restante e nell’area sottostante denominata "orto del monaco  dove si svilupperà un progetto già concluso dall’ufficio tecnico della SNAM (progetto per un orto botanico). Lungo il percorso che da Portovenere conduce a Campiglia troviamo diverse cave con edifici a servizio di queste, inutilizzati; vorremmo recuperare queste cave insediandovi l’attività "uso della pietra". Il quarto tema, "tradizioni popolari", lo si insedierà nel mulino di Campiglia, ove nella pineta adiacente troverà posto una struttura provvisoria, prevista dal Prg con funzione di ospitare un’equipe formata da varie professionalità che coprano tutte le varie attività del museo all’aperto.

Proposta di intervento sui mulini

Il progetto riguardante i mulini a vento di Portovenere si integra nella proposta di sistemazione esterna dell’area circostante, in particolare la zona denominata "orto del monaco", attraverso la realizzazione di in orto botanico a cura dell’ufficio tecnico della SNAM. L’intervento sui due mulini sarà di carattere conservativo attraverso l’eliminazione dei degradi rilevati e la reintegrazione degli elementi architettonici crollati riqualificando il tutto attraverso un’illuminazione adeguata sia dei manufatti sia dell’area circostante (Piazzale del Castello). E’ inoltre indispensabile adottare una segnaletica di pannelli illustrativi per documentare sul posto gli elementi architettonici e storici dei mulini a vento offrendo un immediato raffronto tra questi e l’apparato didascalico dei pannelli. Questi elementi verranno utilizzati in tutto il territorio per indicare direzioni, posizioni dominanti di valore paesaggistico e naturalistico, architetture emergenti. A differenza dei mulini di Portovenere, l’idea di progetto riguardante il mulino di Campiglia intende restaurare il manufatto allo scopo di riutilizzarlo attraverso un progetto di restauro statico e, solo successivamente, di restauro conservativo; prevediamo inoltre la realizzazione di un edificio a carattere temporaneo adiacente al mulino, previsto dal P.R.G. del Comune di La Spezia. Qui vorremmo insediare il "cervello" dell’ecomuseo, cioè la parte gestionale e di ricerca dove poter organizzare tutte le attività di servizio per i turisti e la popolazione locale.

(CONTINUA)

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Ultimo aggiornamento: 09-06-03